La verità del “bersaglio” Armando Veneto per i suoi 90 anni
Il ritorno a casa del boss Franchino Perna e Altomonte sciolta per ‘ndrangheta nascosta

Nel guardare e riguardare il video del discorso pubblico dell’avvocato Armando Veneto nella sua Palmi sabato scorso per celebrare i suoi 90 anni mi sono tornate alla mente le righe finali del romanzo breve “Giustizia” di Dürrenmatt recitanti: “Chi è colpevole? Chi dà l’incarico o chi lo accetta? Chi vieta o chi non osserva il divieto? Chi emana la legge e chi la infrange? Chi concede la libertà e chi la sente?”.
In occasione di quella normalità che alla Calabria non appartiene il tutto si sarebbe risolto in una manifestazione da “toga d’oro” per uno dei più celebri penalisti italiani. Invece sulla celebrazione ha pesato “il gravame” di una vicenda giudiziaria che ha visto Armando Veneto anche uomo delle istituzioni come sottosegretario e parlamentare inquisito per mafia per oltre un decennio. E infatti la serata finale è stata accompagnata anche da simposi per due giorni cui hanno partecipato non solo illustri avvocati italiani ma anche magistrati e giornalisti a voler segnare l’appartenenza a questa kafkiana vicenda.
Veneto come è noto è stato accusato di essere in combutta con i clan che ha difeso come avvocato indicato come corruttore di atti giudiziari, pesantemente condannato in primo grado e poi assolto nei successivi gradi di giudizio per non aver commesso il fatto. Si è sospesa anche l’aria quando Armando Veneto si è recato a parlare di lui e della sua vicenda conquistando tutto l’uditorio.
Quattordici anni di vita spiata ai telefoni, che ingiustizia dico io, un processo che dura tanto tempo e che si dovrebbe chiudere visto l’esito in pochi mesi.

Ricorda il penalista quei momenti, rielabora i fatti l’avvocato che da giovane parlava in Rai a spiegare i meandri della cultura mafiosa lontana dalla sua vita da avvocato e confessa il suo disagio nell’affermare “Apro la bocca e le parole non mi escono” lui che mandava a memorie le carte e ha sempre trovato linguaggi adatti per arringhe memorabili. Un uomo che ha sempre vissuto con le parole giuste Armando Veneto. Cerca sé stesso in questa confessione pubblica. Le ragioni di una vita spesa ad esercitare Diritto come parte di un processo che dovrebbe essere sempre giusto.
Si è interrogato molto nel corso di questi lunghi anni da illustre inquisito. E lo esplicita questo discorso da seduto, perché afflitto da un’anemia forse anche provocata da questa vicenda giudiziaria. E una risposta cartesiana l’avvocato Veneto l’ha trovata: “Ho capito che non ero il soggetto sul quale si lavorava per cercare un indizio. Io ero un bersaglio”. Ne consegue Veneto che nel suo caso si è trattato di una sorta di safari giudiziario nei confronti di un avvocato illustre, di un borghese conosciuto e rispettato da tutti.
Un professionista bersaglio che ai suoi amici, parenti, sodali ricorda di aver “servito come avvocato”. Non è un uso servile del verbo ma una notazione al suo essere stato utile ad un preciso scopo che è quella della difesa personale e del bene supremo della libertà. Un formatore di Diritto che non dimentica i 180 giovani che hanno frequentato il suo studio compresa la figlia che riceve un affettuoso ringraziamento da padre per averlo accompagnato in questo calvario. Nel corso del suo discorso Veneto non ha mai pronunciato il nome del suo inquisitore. Che tutti conoscono perché è il procuratore Nicola Gratteri.
Non mi è sembrata retorica avvocatizia quel non voler mai pronunciare il nome di colui che tutta la vicenda giudiziaria l’ha inquadrata senza legittimo dubbio, come colpevolista. Una questione di stile quella di Veneto. In fondo, sosteneva Sciascia, alla fine la Giustizia è una questione di Ragione, quella che troppo spesso se ne fugge dal senno dei tribunali. Ascoltare l’umano discorso di Armando Veneto per i suoi 90 anni è stato come vedere per la prima volta nella sua nitidezza la costellazione di Orione, quella più celebre, la più semplice da riconoscere. Quella che raffigura un cacciatore che ci chiediamo chi insegua perché non visibile. Nella Giustizia Orione va guardata con attenzione perché il cacciatore troppo spesso si confonde a scegliere la preda che sfugge ai nostri occhi.
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Franco Perna di anni invece ne ha 83 ed è uno dei boss della malavita di Cosenza. La notizia è che dopo decenni di detenzione al carcero duro del 41 bis è tornato a casa perché gravemente ammalato. Prima che la notizia diventasse mediatica era già nota a gran parte della città grazie a quella radio fante che rende condivise le vicende del carcere e di chi vi è detenuto. Franco conosciuto come Franchino, nome da tutti risaputo da libero e poi da ergastolano definitivo. Contrario allo spaccio di droga per lungo tempo e monarca del continuismo di quella mafia ibrida regnante ai tempi del vecchio padrino Zorro anche suo parente acquisito. Sono stato l’unico cronista ad intervistare Franchino Perna. Era il 13 dicembre 1996 e durante una pausa del processo Garden con la strafottenza temeraria del giovane giornalista mi riuscì il colpo di farlo parlare attraverso le gabbie degli imputati con i suoi uomini a circondarlo per ascoltarne le parole. Cito l’episodio non per inutile vanagloria ma per darne un riferimento a chi studia e chi racconta queste cronache. Le risposte furono probabilmente dettate dalla tattica processuale dell’imputato che si vedeva assediato dalla marea montante di “pentiti” e dissociati cosentini, infatti mi disse il boss: “Sono una massa di bugiardi, tutti comprati. Si stanno facendo i fatti loro sulle nostre spalle. Hanno fatto i miliardi, vengono qui ad accusare, dopo aver fatto tanto male se la vogliono scampare e ritornare tutti liberi”. Negò di essere un capo ma si riconosceva come un simbolo. Una visione di parte ma certamente un documento. Colgo oggi un senso comune molto diffuso a Cosenza per il ritorno a casa da malato terminale di Franchino Perna. Una sorta di riguardo alla sua condizione per non aver mai chiesto benefici di legge legati a collaborazioni con chi lo ha inquisito. Nella vecchia guardia della malavita una sorta di eccezione da parte di chi ha scelto di trascorrere lunga parte della sua vita in carcere fedele alla sua scelta per quanto sbagliata possa essere. Quando una guerra finisce i prigionieri tornano a casa. Perna la sua guerra l’ha persa con la dignità di chi ne preserva la coerenza. Tema morale complesso ma che merita di essere esplicitato per meglio conoscere i molteplici significati della cultura mafiosa calabrese.
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Il Viminale ha sciolto per mafia il comune di Altomonte, una sorta di Spoleto di Calabria. Bella e accogliente per giacimenti culturali e gastronomici sorti per la caparbietà di Costantino Belluscio socialdemocratico vicino a Saragat. L’attuale sindaco Gianpietro Coppola era stato suo discepolo per poi diventare più volte primo cittadino e continuarne l’opera. Altomonte è quanto di più lontano dall’immaginario ‘ndranghetista. Pochi uomini singoli locali appartengono a quella zona oscura. La casistica anche questa volta è stata la solita. Apertura di procedimento per delibere “sospette”. Fiducia nell’accertamento da parte del sindaco ma i funzionari dello Stato hanno invece stabilito che c’è infiltrazione con il solito provvedimento liberticida che non permette immediata difesa o contestazione.
Come ai tempi del prefetto Mori si procede con mano dura. Resta l’amarezza della vicenda. Come accaduto a Tropea capitale del nostro turismo l’economia continuerà a far il suo corso come è capitato dopo la scioglimento che non ha minimamente influito sulla frequentazione di spiagge amene e dei locali da movida. Ad Altomonte si continueranno a celebrare banchetti nuziali, si visiterà il Castello forse ci saranno meno spettacoli teatrali ma i deliziosi ristoranti continueranno ad offrire i loro menù con celebrata e riconosciuta capacità di accoglienza. La democrazia locale viene meno con ferita per tutta la comunità. Per il momento il primo cittadino ha annunciato che si batterà per difendere “l’immagine, l’onestà e l’onore” della sua Altomonte. Temo che come in altre occasioni a distanza di anni constateremo che il “gravame” delle accuse non meritava l’ennesimo muscolare provvedimento. (redazione@corrierecal.it)
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