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la riflessione

“Passare al bosco”. Lettera aperta alla professoressa Di Cesare

di Francesco Bevilacqua*

Pubblicato il: 27/11/2025 – 8:30
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“Passare al bosco”. Lettera aperta alla professoressa Di Cesare

Cara professoressa Donatella Di Cesare, lei ha recentemente scritto un post dal titolo “I bambini nel bosco e il lupo dei magistrati”, definendo la vicenda dei genitori di Chieti, ai quali sono stati provvisoriamente sottratti i figli, come “l’ultima favola della destra”. Mi scusi se provo a contraddire una filosofa e politica dichiaratamente di sinistra quale è lei, ma la sua sortita mi preoccupa molto, proprio per la buona salute (mentale ed elettorale) della sinistra italiana. La parte virgolettata del titolo della mia lettera allude ad un’espressione cara ad Ernst Jünger, con la quale il grande scrittore tedesco si riferiva ad una auspicata ribellione degli individui contro il pensiero dominante imposto dalle dittature, anche quelle mascherate da democrazie.

Andiamo per ordine. Lei descrive i due coniugi di Chieti, Catherine e Nathan (non li chiama neppure per nome, depersonalizzandoli), come due mostri che, secondo il suo testo, «hanno negato ai propri figli istruzione, salute, socializzazione, persino le visite pediatriche di base». Accuse gravi che però non sono state dimostrate, perché il procedimento deve ancora concludersi: direi che nell’attesa, potremmo astenerci dall’emettere sentenze dai social, non crede? Poi lei accusa i genitori di essere degli «egoisti che trattano i figli come delle estensioni di sé stessi». Le chiedo: lei ha per caso letto le relazioni di qualche psicologo del Tribunale? Perché se non lo ha fatto, è meglio che si astenga dall’esprimere giudizi per i quali non ha competenza. E chiude la sua invettiva con due affermazioni perentorie. La prima è che la democrazia – leggi la magistratura – deve intervenire quando «i diritti dei bambini vengono negati». Ancora una volta, mi domando da dove tragga la convinzione che i tre figli della coppia siano vittime di diritti negati, visto che conosce la storia solo per quello che scrivono i giornali. La seconda – dove entra in gioco la politica – è che le espressioni di solidarietà ai genitori in questione, espresse da alcuni esponenti della destra italiana sarebbero propaganda, perché tenderebbero, ancora una volta, “ad indebolire la polis” (leggasi: la civiltà delle relazioni che è incarnata dalla città) in favore dell’”oikos” (in greco: casa) ossia la famiglia che, nel suo lessico, diventa «fortezza, proprietà assoluta del padre, sottratta ad ogni responsabilità pubblica». Se ho capito bene, lei sostiene cioè che la famiglia di Chieti sia il paradigma della famiglia fascista e che Nathan sia un padre padrone. Mi piacerebbe sapere quali informazioni lei abbia per muovere accuse così gravi.

Cara professoressa, da uomo di sinistra, che l’ammira, anche, per le sue tesi sul tecno-fascismo e sul bellicismo dell’Occidente – nonostante la verbosità con cui le esprime – mi spiace doverle fare un annuncio. Questa sua sortita (come quelle che le hanno impedito di essere eletta in Calabria) ritarderà ulteriormente l’epoca in cui la nostra comune parte politica potrà seriamente proporsi alla guida di questo Paese, dopo esservi stata, disastrosamente e come cane da guardia del neoliberismo e dei tecnocrati europei ed americani, per anni. Provo a spiegarmi.

Nel suo scritto lei sembra intendere l’essere di sinistra come puro e semplice “progressismo”, ossia fede nel dogma del progresso. Basta che il progresso proponga (o forse meglio imponga) asserite innovazioni (pensi, di questi tempi, alla robotica o all’intelligenza artificiale) perché tutti noi ci si debba adeguare, per un superiore bene collettivo e senza diritto di critica. Sicché la scelta di vivere in modo più semplice, come prova a fare la famiglia di Chieti – magari un po’ maldestramente, fors’anche ideologicamente – diventa un peccato contro la sinistra. Ma, le chiedo, non eravamo noi di sinistra (ricordo la “mutazione antropologica” di Pasolini, ad esempio) a dubitare un tempo che il progresso fosse un dogma assoluto? E non eravamo noi di sinistra a criticare il potere coercitivo, come ha scritto bene il prof. Tommaso Greco ieri su “Avvenire” con un’analisi illuminante del fenomeno politico rappresentato dalla vicenda dei coniugi di Chieti?

Lei poi ce l’ha con la famiglia, con i genitori che provano ad educare i propri figli nei valori in cui credono. E, mi dica, dovremmo idolatrare un’altra volta “La morte della famiglia” scritto nel 1971 dall’anti-psichiatra David Cooper (che però ce l’aveva anche con altre istituzioni educative come la scuola e le università)? Oppure dovremmo sostituire le famiglie con delle imprecisate comunità? E perché i genitori dovrebbero educare i figli nei valori in cui crede lei o in quelli imposti dallo Stato? E secondo lei, basta che dei genitori non siano omologati al pensiero dominante perché vengano loro sottratti i figli, come nel caso di Chieti? O non sarebbe forse, più giusto, lasciare che i figli, un giorno, come è accaduto a tutti noi, si emancipino dal rapporto con i genitori e trovino la loro strada liberamente?

Vede, cara professoressa, proprio perché uomo di sinistra io simpatizzo per i due coniugi di Chieti – un po’ naif e utopici – che preferiscono (per quanto possiamo capire) l’essere all’avere (come Fromm), la vicinanza alla natura piuttosto che l’inurbazione coatta (come Lorenz), l’educazione affettiva di una famiglia umile alle imposizioni di una preconfezionata educazione scolastica con i miti dell’efficienza, del successo, della produttività e del consumo. E non mi va proprio di lasciare ai Salvini di turno la difesa di Catherine e Nathan (metto avanti la mamma perché, al contrario di lei, penso sia abbastanza evidente che è quella di Catherine, fra i due, la personalità prevalente). Per questo la prego, da studiosa quale è, anche se non è stata eletta: torni in Calabria e venga a vedere quante famiglie vivono senza i servizi minimi essenziali in tanti paesi dell’interno. Vedrà anche come qui i Tribunali dei minori non si sognano nemmeno di togliere a quelle famiglie i figli, perché sarebbero decine di migliaia e non saprebbero dove metterli. E venga a sentire come gli economisti educati nelle grandi università vorrebbero risolvere il problema: con lo “spopolamento programmato” caro a Romano Prodi e Donato Jacobucci; con la deportazione forzata, cioè, di tutti coloro che vivono nei piccoli paesi, in città. L’aspettiamo, di nuovo, con affetto, e soprattutto, senza l’urgenza delle elezioni. Perché, se non l’avesse ancora capito, in Calabria la sinistra le elezioni le ha già perse. E venga da persona di sinistra, da ribelle, perché qui, come direbbe Jünger «il bosco è dappertutto […]. Il bosco è nel deserto, il bosco è nella macchia. Il bosco è […] in ogni luogo dove il Ribelle possa praticare la resistenza».

*Avvocato e scrittore

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