Intorno al film “Ammazzare stanca”, la ‘ndrangheta tra nord e Calabria aggiungendoci Ganzer, gli anni ’70 e i fatti di Luino
Il film di Vicari scava nella ferita nascosta della ’ndrangheta al Nord, quando si uccideva e si rapiva in silenzio, lontano dai riflettori

Prendo spunto dalla visione del bel film “Ammazzare stanca” di Daniele Vicari per riflettere sulla ‘ndrangheta raccontata con piglio giusto, senza nessuna retorica e memoria storica. Film più proiettato e discusso in Lombardia che in Calabria (qualche ragione ci sarà su questo rimosso) e che lo pone tra i migliori film sulle ‘ndrine calabresi al Nord insieme ad “Anime nere”, che creò sussulti contrapposti fin dall’uscita a Venezia per specchiarci nella modernità, e de “Lo spietato” con Riccardo Scamarcio che da Buccinasco conquista Milano con racconto molto pop.
Nel 1977, nel film “Ecco noi per esempio” con Celentano e Pozzetto, i calabresi a Milano sono uno sfondo di trama con un sequestro di persona, attuale a quel tempo ma che non indignava nessuno al Nord come al Sud. Un fatto scontato. In “Ammazzare stanca” invece rielaboriamo gli anni Settanta ma nel Varesotto conquistato dagli Zagari fin dagli anni Cinquanta. Antonio Zagari è uno dei primi pentiti calabresi che va contro la famiglia e soprattutto ammazza metaforicamente il patriarca perché, attraverso i libri e non solo, è nauseato dai suoi omicidi. Baffoni alla Palanca, Zagari ha una doppia vita da mafioso e operaio di linea. È la ‘ndrangheta sommersa del periodo che non si mostra, si nasconde, viaggia in auto utilitarie, mantiene i riti ancestrali e ammazza. Non ci fu nessun clamore alla Buscetta quando Zagari clamorosamente saltò il fosso. Roba lontana quella di questo clan di San Ferdinando che si innova con i sequestri di persona e vive lo scontro generazionale sul nuovo mercato della droga, quello che è oggi core business della ‘ndrangheta globalizzata.A Buguggiate un muratore oscuro e violento ha contaminato di mafia la Lombardia più profonda che diventerà leghista. Contrabbandiere di bergamotto e sigarette, affilia figli e nipoti da quando sono in fasce mettendogli accanto coltello e chiave. Le donne di famiglia acconsentono, schiave del ruolo, ma non quelle degli anni Settanta che guardano al mondo che cambia e che determinano la svolta.

Un mondo chiuso che accumula soldi in strette relazioni con quelli di giù che comandano e che tra Calabria e Lombardia decidono alleanze e guerre con quelli di Reggio Calabria o di San Luca. Gli Zagari, la prima famiglia di ‘ndrangheta di cui si ha notizia in Lombardia. I veri nomi della vicenda si declinano attorno a Giacomo Zagari con le generalità di Domenico Loiacono, Santo Sofo, Michele Zagari, Bruno Miletta, Francesco Gattini, Michele Pantano, Savino Pesce, Michele Iannaci. Alleati e a quel tempo subalterni di Luciano Liggio di Cosa Nostra, con circolarità di affiliazione tra le due organizzazioni che arrivano ai tempi nostri.
Tempi lunghi nel tempo moderno, come quando il magistrato Armando Spataro riprende il faldone dimenticato con le rivelazioni di Zagari e fa scattare “Isola Felice”, manette per 115 affiliati. Era il 5 dicembre 1994 e noi guardavamo la decadenza della prima Repubblica. Abbiamo questa storia grazie al memoir scritto da Antonio Zagari per sublimare i suoi 16 omicidi. Diario recuperato dal cronista del giornale di Varese “La Prealpina”, Gianni Spartà, che lo fece diventare un libro. Il giornalista era presente alla prima veneziana e ha detto di Antonio: «Zagari si pensava scrittore, forse anche attore. Leggeva Manzoni e Pavese, e aveva sedici omicidi sulla coscienza» e non è così raro lo ‘ndranghetista che si riscatta con la cultura.
Mi sembra giusto ricordare che la prima edizione del libro si deve alla figura dell’editore cosentino Pasquale Falco che, con la sua Periferia, ha combattuto da una trincea troppo nascosta la sua bella battaglia intellettuale. Poi il titolo venne acquisito da Aliberti ma non fu un successo editoriale, speriamo meglio ora con il traino del film. La prefazione è stata affidata ad Arcangelo Badolati, esperto di cosche calabresi, che chiosa prima del racconto: «Quella degli ‘ndranghetisti, è una corsa verso il nulla. La loro è una vita consumata senza amici, in perfetta solitudine, inseguendo i miraggi d’un potere effimero».
Nel film un maiuscolo Piergiorgio Bellocchio (anche produttore insieme all’assistenza della Calabria Film Commission) interpreta il colonnello dei Carabinieri che, con metodi non ortodossi, induce alla collaborazione Antonio Zagari. Egli nella realtà è il futuro generale dei Ros, Giampaolo Ganzer, controverso alfiere dell’ordine repubblicano e che in Calabria gestirà militarmente l’Operazione no global contro i contestatori meridionali della globalizzazione che, come è noto, finirà poi a nulla.
Ma c’è un altro spin-off di non poco conto nel film. È il tragico finale del tentato rapimento di Antonella Dellea, figlia di un piccolo imprenditore lombardo. Era il 16 dicembre 1990 quando i Carabinieri sparano a freddo uccidendo in modo preventivo quattro calabresi. Nel film una breve sequenza quella di Germignaga, in provincia di Varese, dove morirono Sebastiano Giampaolo, 39 anni, Salvatore Romeo, 30 anni, Sebastiano Strangio, 26 anni, e Giuseppe Ietto, 39 anni. Calabresi di San Luca e Natile di Careri, nuova gente d’Aspromonte. Era stata condivisa in Italia moralmente la morte dei tentati sequestratori. Si alzò forte la voce di Giacomo Mancini in Parlamento chiedendo conto e smontando la tesi ufficiale. Mancini andò a San Luca a condannare i rapimenti come “odioso reato” ma anche per protestare che era stato vietato il funerale delle vittime. Scrisse anche il penalista Luigi Gullo affermando con prosa radicale: “Questi nostri pochi connazionali, di tutta evidenza, non vogliono lo Stato che fa giustizia, ma lo Stato che fa la guerra”. E Pasquino Crupi raccolse tutto nel suo prezioso “Il giallo colore del sangue di Luino”. Fatti che meriterebbero un seguito seriale di “Ammazzare stanca” da intitolare provocatoriamente “Quando la Calabria discuteva”.

Ma se questo è contesto, resta il bel film. Con ambientazione filologica ci restituisce gli anni ’70 con gli spinelli, la cocaina che cambia i picciotti, le lotte sindacali, il terrorismo, le discoteche, le moto da cross e le Nazionali Super senza filtro. Una regia rigorosa quella di Vicari, regista della macelleria messicana della Diaz, che la mafia calabrese la chiama filologicamente “La Santa” e che ispira un ottimo protagonista nell’attore emergente romano Gabriel Montesi, perfetto calabro-lombardo in movenze e recitazione. Non di meno il padre affidato a Vinicio Marchioni, che sfrutta al meglio le origini calabre della madre per dizione incalzante, aggiungendoci fisiognomica da boss. Brava anche la protagonista femminile Selene Caramazza. La chicca è Rocco Papaleo nei panni del boss don Peppino Pesce. Appena compare in scena ti strappa il sorriso per riflesso condizionato memoriale alla sua comicità, ma è un attimo e poi è subito magnifica recitazione da cattivo. Tutti i personaggi, le ambientazioni e la sceneggiatura creano un racconto che non ti molla mai fino all’ultima sequenza. Quando la ‘ndrangheta ammazzava e rapiva persone. Prima di diventare associazione a delinquere di stampo capitalista. Un film utile e necessario. (redazione@corrierecal.it)
Il Corriere della Calabria è anche su WhatsApp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato