Francesco “Platini” Oliverio: il talento della Sila che inseguì il calcio e tornò alle origini
Cresciuto tra un pallone, un campanile e i sogni degli anni Ottanta, Oliverio è stato uno dei talenti più puri del calcio di provincia calabrese

C’era una volta Michel Platini, che il 16 giugno 1984 siglò all’Europeo d’Oltralpe una celebre tripletta con cui la Francia sconfisse la Jugoslavia sul terreno dello stadio Geoffroy-Guichard di Saint-Étienne, lo stesso in cui il cannoniere di quella giornata aveva giocato prima di passare alla Juve.
«Le Roi» aveva una classe sconfinata, una straordinaria visione tattica, un tocco di palla magico, un’eleganza impareggiabile. La mia generazione ancora ne ricorda lo sguardo alto e le intuizioni in campo, le aperture sulla fascia con la maglia bianconera della ‘Vecchia signora’, le trovate geniali e le punizioni telecomandate all’incrocio dei pali o poco sotto. Platini era un mito; proprio come, per i più piccoli, nel Belpaese poteva essere Jeeg Robot d’Acciaio oppure il Grande Mazinga, in quegli anni ’80 salutati poi da Raf in una canzone divenuta vintage.
Quello scorcio del Novecento fu tra l’altro segnato dalle tensioni fra Usa e Urss; dal dialogo tra Reagan e Gorbaciov; dalla perestrojka e dalla caduta del Muro di Berlino; dal pop di Madonna e Michael Jackson; dai sintetizzatori e dalle drum machine; dall’ascolto crescente dei successi di Eros Ramazzotti, Vasco Rossi e Franco Battiato; dalle due stragi ferroviarie di Bologna e San Benedetto Val di Sambro; dallo sviluppo della tecnologia e della pubblicità; dal trapianto di un cuore di babbuino nel petto di una neonata, eseguito dal luminare Leonard Bailey; dalle tastiere del Commodore 64 e del VIC-20 che entravano in casa e dialogavano col televisore; dalla diffusione delle tv private; dal governo socialista di Bettino Craxi e dal livello raggiunto dall’Italia quale potenza economica e patria della moda.

Il 16 giugno 1984, Francesco Oliverio, il protagonista della storia di oggi, aveva appena 10 anni, scambiava le figurine della Panini come tanti coetanei e dava spettacolo nel quartiere popolare di Santa Lucia, a San Giovanni in Fiore, tra i Comuni meridionali più colpiti dall’emigrazione. In pratica, quell’enfant prodige ipnotizzava e addomesticava il pallone come un domatore del circo, un illusionista del piccolo schermo, un incantatore di serpenti. In particolare, si esibiva in palleggi impossibili, tiri millimetrici dalle traiettorie paraboliche, galoppate tipo Bruno Conti e dribbling ubriacanti alla Renato Gaúcho Portaluppi davanti alla chiesa in costruzione, presso il salone delle attività parrocchiali attiguo all’alloggio delle suore di Vicenza, sempre partecipi della vita comunitaria.
Allora l’infanzia scorreva nella semplicità e nella gioia: tra casa, catechesi e ruga (rione, nda), nelle corse pomeridiane dietro a un Super Santos e, quando disponibile, a un Tango; fra le manifestazioni affettuose del vicinato, magnifici sogni personali e il desiderio di emulare campioni come Zico, Rumenigge, Briegel, Pablito Rossi, Maradona, Roby Baggio e lo stesso Platini.
Lì Francesco imparava a calciare da ambidestro, a stupire con l’abilità tecnica, a incollare la palla al piede in qualunque situazione. E la sua fama si spandeva per San Giovanni in Fiore, tanto che sembrava un predestinato alla Oliver Hutton. Così era visto dagli amici che, in quello spazio popolare pervaso da un senso di comunità nutrito dal cappuccino padre Antonio Pignanelli, seguivano e imitavano le prodezze di Holly e Benji, cartone in piena voga sul football con le reti. Insomma, pallone e campanile, che lì a Santa Lucia sarebbe stato edificato più tardi. E con la strada come oratorio reale, le icone del calcio per modello e un microcosmo di valori e sentimenti che rispecchiavano i tempi: il culto della famiglia altrimenti sugellato dagli spot del Mulino Bianco, della Ferrero o dell’olio Cuore; l’importanza dei rapporti sociali; la funzione pedagogica del gioco all’aperto e dello scambio intergenerazionale tra piccini, adulti e anziani.
Oliverio si formò in un tale contesto, allora molto comune da Caldogno (Vi) a Palermo, da Carmagnola (To) a Candela (Fg) – dove nacquero «Il divin codino», Totò Schillaci, Gigi Lentini e Pietro Maiellaro – e forse più tipico in Calabria: da Stilo (Rc), il borgo di Tommaso Campanella e Gigi Marulla, a Catanzaro, la città di Massimo Mauro; da Cosenza, luogo d’origine di Bernardino Telesio e del trequartista Mimmo Cairo, a Cariati (Cs), dove crebbe l’attaccante Rocco Russo, e alla Crotone della Scuola pitagorica e dell’estroso Gino Porchia.
La televisione – l’aveva capito la Dc – era educativa, dava una direzione e, come aveva inteso Silvio Berlusconi, che la usò per fini commerciali e in seguito politici, plasmava di molto gusti, desideri e aspirazioni individuali. Perciò i bambini e i ragazzi inseguivano le immagini e le gesta dei miti del calcio, quelli dentro il campo e fuori: da Platini a Sandro Ciotti; da Nils Liedholm a Enrico Ameri; da Gianni Agnelli a Ernesto Pellegrini; da Dino Viola a Corrado Ferlaino; da Bruno Pizzul ad Aldo Biscardi; da Tonino Raffa a Carlo Nesti. E quindi spopolavano le identificazioni con fuoriclasse come Platini – fu il caso di Francesco, ancora oggi soprannominato «Michel» – oppure con telecronisti quali Carlo Nesti, che per esempio era un mio riferimento per la ricercatezza e fluidità nel parlare.
In breve, esisteva un mondo, mitizzato dalla provincia e dal Campanile peninsulare, che custodiva un’umanità contadina e assieme pativa i pregiudizi della società italiana del dopoguerra, piccolo-borghese, secondo Pier Paolo Pasolini la massa più vulnerabile alla seduzione del consumismo. E in quel mondo le diseguaglianze erano molto evidenti: chi viveva in Calabria, per dirla con Rino Gaetano, difficilmente poteva affermarsi nel calcio. Non c’erano troppi impianti sportivi, strumenti, opportunità. Inoltre, veniva complicato mandare i figli fuori a tentare fortuna nel pallone. Servivano soldi, e allora i genitori preferivano che la prole avesse un titolo di studio avanzato, sul presupposto che consentisse loro di ottenere un posto fisso, sicuro, garantito. Ancora, a quel mondo piccolo e genuino di focolari, condivisione e parrocchia, era spettralmente contrapposta la prospettiva della partenza: per la Svizzera, la Germania, le Americhe, l’Australia. E a San Giovanni in Fiore aleggiava senza parole l’eco di Monongah, la più grande tragedia mineraria del secolo scorso, del 1907, e l’effetto terrifico del crollo della diga di Mattmark, del 1965, che aveva provocato la morte di sette operai sangiovannesi.

Francesco Oliverio, detto appunto «Platini», aveva però un carattere ribelle e un talento troppo pronunciato per rimanere in quella strada a divertirsi con i piedi innanzi al pubblico rionale. Così, già prima della fine degli anni ’80, iniziò a frequentare gli ambienti della Silana, in cui entrò di fatto nel 1989, quindicenne. Nei lupi biancazzurri rimase sino al ’94. Per inciso, quell’organico passò alla storia per i record di un’annata: oltre 80 i gol realizzati, meno di dieci quelli subiti e 1.500 presenze fisse in casa sugli spalti, con alcune centinaia di tifosi stabilmente in trasferta.
Nella stagione ’94-’95, «Platini» fu determinante per la vittoria del campionato da parte del Cirò, che raggiunse l’Eccellenza. Poi, con i suoi numeri trascinò il Lauria nella serie interregionale. Di seguito, finì al Villa San Giovanni e dopo contribuì al secondo posto della squadra di Scalea. «Michel» disputò alcuni campionati in Piemonte, dove fu apprezzato per la tecnica e tenacia, e tornò ancora in Calabria, dando una mano importante alla Silana, ai tempi presieduta dal vulcanico Emanuele Carida, che si descriveva come: «uomo che di commercio vive e nello sport si esalta». Soprattutto, restò nella microstoria del calcio dilettantistico calabrese il passaggio di Oliverio – già pronto a firmare un contratto con l’Asti – al Sambiase, che lo volle per la salvezza. Con il “francese” della Sila, il Sambiase sfiorò la promozione in Interregionale: perse la finale contro la Paolana con un gruppo di giovanissimi trainati e guidati proprio dal fenomeno sangiovannese, che a seguire rifiutò la corte della Vigor, partì per la Svizzera e militò nella Prima Lega elvetica. Lì Oliverio sposò Mary La Barba, una ragazza siciliana, e divenne papà di Michelle, così chiamata in omaggio a Platini. Oggi Francesco Oliverio torna spesso in Calabria, dove per scelta “politica” passa le vacanze estive insieme alla propria famiglia. È un innamorato perso della regione, uno dei tanti – come lo era il compianto giornalista e scrittore Orfeo Notaristefano – avvezzo ai ritorni per il richiamo e il bisogno delle origini.

«Ciò che ritrovo dietro un abbraccio, non lo trovo da nessuna parte. La Calabria è l’antibiotico naturale più efficace che possa esserci», dichiara Oliverio, inconsapevolmente riprendendo spunti di ricerca della scienziata Domenica Taruscio, promotrice del “Sila Scienza”. L’ex calciatore rimarca: «Dietro un bicchiere di vino parli, in questa terra senza malizia. Se abbiamo dato il nome all’Italia, un motivo ci sarà. Guarda come noi emigrati, uniti da radio come Prl, ci poniamo nei confronti della Calabria».
«Platini» è stato uno degli ultimi romantici del pallone, calcisticamente penalizzato dal suo fuggire da casa per ritornarci in altre vesti. Ora, da marito, padre e adulto 52enne che lavora all’estero, nella Svizzera un po’ calabrese popolata di iscritti all’Aire, testimonia una vena sentimentale e poetica che racconta, esprime i contrasti, gli opposti della Calabria: terra che respinge e attrae, in cui sopravvive un’umanità costretta a percorrere i sentieri della nostalgia, a fare i conti con la cancellazione della memoria. L’unico prodotto gratuito del capitalismo globale. (redazione@corrierecal.it)
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