Lettere di Natale ai lettori nel giorno in cui tutti tornano al presepe dei propri luoghi
Buon Natale a voi ovunque vi troviate

Le città e i paesi di Calabria dilatano al massimo in queste ore le presenze di chi appartiene a questa regione. Si accendono le luci spente di contrade remote, negli aeroporti e nelle stazioni gli arrivi sovrastano le partenze, le tavole si allungano per ritrovare gli affetti lontani. Guardo a tutto questo come la figura del presepe che è l’Incantato. Luigi Lombardi Satriani lo chiama “’U ’ncantatu da stijia o ’u scimunìtu du presepiu”. È il pastore colpito dall’apparizione della stella che annuncia la nascita del bambino in una mangiatoia e che spesso dimentichiamo che morirà crocefisso tra due ladroni.
Voglio essere lo stupito, lo scimunito colpito dal sogno celeste davanti alla mia regione che per una notte e giorni seguenti si anima come un antico presepe, inseguendo al tempo del postmoderno che ha dimenticato ogni religione riti antichi di una tradizione.
La Calabria in queste ore mi sembra un gran presepe che si anima per la festa più bella di tutte. Un presepe umano di “Una poltrona per due” sui monitor, del professionista di successo a Parigi che mastica torrone di Bagnara, di antiche tombole riesumate in soffitta, di auguri ai vicini, a persone che ti hanno visto crescere ragazzo e tu sembri un po’ incantato dalla stella ripensando a quelli del condominio di Pavia che mai ti hanno domandato da dove eri arrivato.
È il presepe natalizio calabrese. Sono le ore in cui siamo comunità presente. Mancano i malati gravi, i detenuti in carcere e magari per sentenza ingiusta, e quelli che non potevano essere al loro posto assegnato. I morti invece sono sempre presenti e li ricordiamo vivi alla nostra comunità. È un tempo eccezionale quello del Natale calabrese. Un tempo sospeso che ci riavvita le memorie e le scelte.
Negli ipermercati e nei negozi l’olio di frittura in questi giorni è aumentato di prezzo. In Calabria è trionfo di padelle piene di olio che accoglie pasta bianca di lievito e prende forma di ciambelle dalle varie dimensioni e figure geometriche, ribattezzate con diversi vocaboli secondo gli idiomi delle molte Calabrie che sono federate negli usi e costumi ma si differenziano per parlata e dialetto, riconoscendosi però quando si sta fuori. E ognuno torna a quando l’ha scoperto questo giorno di comunione alimentare e di doni arrivati fino a noi al tempo dell’Intelligenza artificiale. Perché veniamo tutti da una tradizione. Ricchi e poveri calabresi, eredi di massari e di nobili decaduti, borghesi in ascesa e neocapitalisti digitali, pronipoti di briganti o di garibaldini.
Davanti al presepe umano del 2025 che ancora una volta si ricompone, io come l’Incantato della stella, con la meraviglia di chi sa, ricordo assieme a voi che siamo sempre stati un popolo di emigranti che va via dalla propria radice ma mai la dimentica. Andate a rileggere le antiche pagine di Alvaro quando ci ricorda che i nostri primi antenati partirono all’inizio dell’Italia unita andando ad eseguire i lavori per l’apertura del Canale di Suez e quegli uomini “che avevano lavorato sugli elevatori di 73 milioni di metri cubi di terra e di sabbia, portarono per primi la notizia di un mondo dove si poteva correre un po’ di avventura lavorando”. Sono stati i primi calabresi moderni del “partire, vedere, conoscere”. Perché dalle più antiche nostalgie “della libertà, della montagna, della foresta, dello stare meglio, nacque l’emigrazione”.
E per l’Egitto partirono anche le donne che le famiglie inglesi colonialiste assoldavano come nutrici.
Scrive Alvaro che il fenomeno “fu tanto vasto che in alcuni luoghi segnò una diminuzione delle nascite”. Il grande presepe del 2025 nelle case calabresi ha anche ben presente che tante nostre nonne, come ha ben descritto Vito Teti nel suo saggio dedicato alle “donne sole degli americani”, ci ha raccontato di queste femmine calabresi “single”, a volte per decenni, altre vedove bianche a vita, che diventarono capifamiglia di ogni nucleo familiare e in ogni attività capovolgendo l’antico patriarcato anche nella sfida al luogo comune. L’America del Sud e del Nord. Nei trent’anni che vanno dal 1876 al 1905 partirono ufficialmente 476.000 calabresi su una popolazione di 1.350.000 abitanti. Un terzo degli abitanti andò via. Altro che spopolamento. Fu un esodo biblico. Continuato per tutto il Novecento in luoghi che si chiamavano Pizzoburgo (Pittsburgh), Broccolino (Brooklyn) e Buenos Aires, dove la parlata calabrese dominava in alcuni quartieri quella spagnola per numero. Quanti Natali lontani, un piccolo presepe a ricordare il suono degli zampognari. In quell’epoca non si tornava per le feste comandate perché i viaggi in nave erano costosissimi e duravano settimane. Quelle comunità con le loro esperienze e risparmi ci hanno aiutato ad uscire da un Medioevo infinito. Iniziò il fascismo a modernizzare la Calabria, continuò il nuovo Stato costituzionale che fece diventare classe dirigente chi aveva occupato le terre e diffuso la partecipazione democratica anche tra chi aveva raggiunto le miniere e i cantieri operai del Nord Europa. Il Sessantotto al Nord fu anche calabrese, saldando nuovi operai e studenti che ripresero la lezione di chi era andato ad inizio Novecento a Napoli e Messina per studiare Legge e Medicina ed era tornato a casa con nuova filosofia e libero pensiero. Un enorme presepe storico, quello calabrese. Oggi alle prese con una globalizzazione che ti fa cercare il tuo altrove in ogni parte del Pianeta dove tu ritieni di aver trovato il tuo stare al mondo. E spesso accade che il giovane convinca i suoi genitori ad andare lontano da casa. La Calabria è un pezzo di mondo in questo tempo difficile che tutto muta in fretta. E saremo noi a decidere quel che saremo prendendo il nostro destino in mano.
E nei giorni di Natale mi preme ricordare ai calabresi tutti che affollano città e paesi che se Leonida Repaci ci ha indicato che il buon Dio quando fu il giorno della Calabria “uscì dalle sue mani più bella della California e delle Hawaii”, forse è meglio lasciare in pace le sirene a Scilla e la Fata Morgana sullo Stretto. Abbiamo bisogno di modernità ma non di distruzione di luoghi che ritroviamo intatti ad ogni ritorno ovunque abbiamo deciso di andare a conquistare il nostro destino.
Al tempo dei giornali, nel 1897, una bambina, Virginia O’Hanlon, scrisse una celebre lettera al direttore del giornale americano Sun chiedendo la verità sull’esistenza di Babbo Natale. Il direttore Church rispose in un articolato editoriale: “Grazie a Dio lui è vivo e vivrà sempre”. E con lo stesso spirito dell’Incantato io sostengo che il presepe dei calabresi che partono e tornano per il 25 dicembre esiste e vivrà sempre, abbarbicato ad una radice chiamata Calabria. Buon Natale a voi ovunque vi troviate. (redazione@corrierecal.it)
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