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Tritolo per uccidere

Se il tritolo fosse esploso, con ogni probabilità sarebbe morta l’infermiera che la mattina del 14 dicembre 2006 ha gettato acqua sulle fiamme che uscivano dal cestino di rifiuti davanti alla Direzio…

Pubblicato il: 29/07/2011 – 16:39
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Tritolo per uccidere

Se il tritolo fosse esploso, con ogni probabilità sarebbe morta l’infermiera che la mattina del 14 dicembre 2006 ha gettato acqua sulle fiamme che uscivano dal cestino di rifiuti davanti alla Direzione sanitaria dell’ospedale di Siderno. Sarebbero morte anche le persone che si trovavano in quel corridoio dove era stata piazzata la bomba.
Strage è la parola chiave del processo all’ex poliziotto Francesco Chiefari, il bombarolo con l’aspirazione di diventare agente dei servizi segreti, condannato per la seconda volta dalla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria. Con una perizia, la Procura della Repubblica e l’avvocato Antonio Mazzone sono riusciti a dimostrare che Chiefari poteva, forse voleva, uccidere. Ora non ci sono dubbi per i giudici di piazza Castello che hanno accolto il punto di vista della Cassazione e hanno messo il sigillo su una vicenda ancora non abbastanza chiara.
Rapporti poco trasparenti, intrecciati ad un contesto intriso di misteri e in cui sguazzano barbe finte che armeggiano bombe vere per intimidire Maria Grazia Laganà e Domenico Fortugno, rispettivamente moglie e fratello dell’ex vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno, ucciso nell’ottobre 2005 a Locri.
Oltre due anni di udienze in cui il leit-motiv, in aula, era sempre lo stesso: «Il detonatore non era funzionante» per cui il tritolo non poteva esplodere. Tanto era stato sufficiente affinché i fautori del «non c’è la tentata strage» vedessero trionfare le loro ragioni davanti al gup e alla Corte d’assise d’appello. La condanna per Chiefari era comunque arrivata, 12 anni in primo grado e 13 anni e 8 mesi in secondo. Ma qualcosa stonava. Una sentenza monca perché fondata su ragioni fragili dal punto di vista tecnico.
Ecco perché le parti civili decisero di conferire l’incarico al perito balistico Sandro Lopez. A questo punto le cose cambiano. Quelle verità che sembravano scontate iniziano a franare, fino a ribaltare le conclusioni a cui erano arrivate le prime perizie sulle bombe di Chiefari.
L’ordigno rinvenuto a Siderno (identico a quello trovato all’interno dell’ospedale di Locri) era, infatti, dotato di un detonatore che funzionava benissimo. Talmente bene che, se non ci fossero stati intoppi, avrebbe senza dubbio provocato un’onda d’urto sufficiente a fare esplodere il tnt. Il detonatore era collegato a un petardo, un banale raudo che, però, si è spento prima di esplodere e, quindi, prima di innescare il detonatore. La catena esplosiva era collegata perfettamente ma si è interrotta poiché il raudo era difettoso, umido. Questo, Chiefari, non poteva saperlo. Il suo obiettivo era quello di far esplodere il tritolo. Non potevano saperlo neanche i periti che hanno eseguito gli accertamenti sull’ordigno durante la fase istruttoria del processo. Utilizzando le parole del consulente delle parti civili, «il detonatore nell’attentato non ha funzionato in quanto il calore del petardo non ha raggiunto la miscela innescante del detonatore».
Calore che poteva comunque essere raggiunto con l’incendio delle carte provocato dalla fiammata del raudo difettoso, se non fosse stato per l’infermiera che, inconsapevole del rischio, si è avvicinata al cestino dei rifiuti riempiendolo d’acqua.
Fin qui l’aspetto tecnico dell’attentato. Hanno fatto il resto le lettere di minacce, il secondo ordigno trovato all’ospedale di Locri, le confidenze “interessate” di Chiefari ai carabinieri, i suoi rapporti perversi con agenti dei servizi segreti.  
Lasciando intendere di essere in contatto con esponenti della cosca Cordì, dopo il primo attentato l’ex poliziotto si è offerto ai carabinieri come fonte confidenziale in grado di indicare il punto preciso dove era stata piazzata la seconda bomba nell’ospedale di Locri e dove le cosche avevano nascosto il rimanente esplosivo: in un terreno in località Serro Mondolfo, nei pressi del cimitero di Careri, di proprietà dei fratelli Felice e Rizieri Cua.
Durante gli incontri e le telefonate con i militari dell’Arma, nel dicembre 2006 Chiefari ha spiegato i suoi rapporti con l’ex agente del Sisde Fausto Del Vecchio (iscritto inizialmente nel registro degli indagati per ipotesi di concorso nel porto e detenzione dell’esplosivo) e ha riferito «della volontà da parte della cosca Cordì di mettere a tacere la famiglia Laganà-Fortugno».
Per risultare attendibile, Chiefari ha parlato di «una sorta di faida interna alla famiglia Cordì, dove un ramo della stessa, riconducibile ai Giorgi, si trovava in forte contrapposizione con l’altro, riconducibile ai Cua, per motivi economici. Per tale ragione il ramo Giorgi, essendo venuto a conoscenza dei propositi bellicosi dei Cua, aveva deciso di fare una soffiata agli inquirenti servendosi per l’appunto del Chiefari».
Un vero e proprio castello di cartone alzato dal bombarolo il quale, in cambio della sua collaborazione, aveva chiesto 50mila euro che sarebbero stati successivamente consegnati alla persona che gli passava le informazioni. A poco a poco, infatti, le fantasiose quanto pericolose teorie di Chiefari sono state smontate dal tenente colonnello Iacono, dal maggiore Mason e dal capitano Niglio che, fingendo di assecondarlo, gli hanno fatto credere di stare al gioco fino a quando, una volta recuperato l’esplosivo all’ospedale di Locri, la stessa sera del 20 dicembre non sono scattate per lui le manette.
È utile, a distanza di tempo, rileggere la sentenza del gup Daniele Cappuccio che, se da una parte aveva scritto che la bomba di Siderno serviva a “dare uno scossone” agli interlocutori istituzionali, dall’altra ha fatto riferimento a fantomatici “appoggi esterni” di cui avrebbe goduto Chiefari che era, ed è, rimasto sempre l’unico imputato di un processo nato da una vicenda di cui non poteva essere il solo protagonista.
Appoggi esterni che, a un certo punto, sarebbero venuti meno, modificando il disegno criminoso e lasciando Chiefari al suo destino, in un binario morto dove l’ex poliziotto avrebbe potuto sempre rappresentare una mina vagante per i suoi referenti, siano essi con la coppola o con la barba finta.
Dopo quattro anni e quattro sentenze, nessuna traccia di questi “appoggi esterni”, di chi si è nascosto dietro Francesco Chiefari. La strage tentata dall’ex poliziotto del commissariato di Siderno è stata riconosciuta dalla Corte d’assise d’appello. Una prima verità che lascia, comunque, aperti una serie di interrogativi intrecciandoli tra loro senza riuscire a sbiadire il quadro a tinte fosche. Come la provenienza del tritolo utilizzato per gli attentati agli ospedali di Siderno e Locri. I panetti rinvenuti dai carabinieri farebbero parte dell’esplosivo affondato con la nave “Laura C”. Così come il tritolo trovato due anni prima, nel 2004, a Reggio a Palazzo San Giorgio. Una bomba “che parlava”, nascosta in un bagno del Comune e scoperta grazie all’intervento dei servizi segreti, tanto efficienti a individuare il luogo preciso in cui era stato nascosto l’ordigno e a sapere che questo sarebbe stato collocato dalla ’ndrangheta. Un po’ meno bravi a sapere, dopo sette anni, quali cosche avevano deciso e organizzato l’attentato, chi aveva abbandonato senza innesco il tritolo che, quindi, non poteva esplodere. Ma questa è un’altra storia, senza indagati.

Lucio Musolino

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