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Processo "Meta", Moio: «Ho avuto 30mila euro per 200 voti»

REGGIO CALABRIA «Ho venduto i voti della famiglia Tegano durante le amministrative del 2007». Roberto Moio non ha dubbi sul fatto che a Reggio Calabria, in occasione di quella tornata elettorale, i v…

Pubblicato il: 12/10/2012 – 15:46
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Processo "Meta", Moio: «Ho avuto 30mila euro per 200 voti»

REGGIO CALABRIA «Ho venduto i voti della famiglia Tegano durante le amministrative del 2007». Roberto Moio non ha dubbi sul fatto che a Reggio Calabria, in occasione di quella tornata elettorale, i voti della ‘ndrangheta siano stati molto ambiti dai politici. «I mafiosi durante le elezioni fanno i soldi», ha affermato il pentito ed ex killer della cosca di Archi. Il collaboratore
è stato fermato dal pm della Dda quando stava per fare il nome di un politico, oggetto, evidentemente, di altre indagini.  
Moio ha reso questa mattina le sue dichiarazioni nel corso del processo “Meta”, che si sta celebrando nell’aula bunker di Reggio. Rispondendo alle domande del sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, il collaboratore di giustizia ha offerto uno spaccato inquietante circa le dinamiche perverse che sovrintendono le elezioni in riva allo Stretto. Un sistema ben collaudato con tanto di tariffario per ogni singola preferenza. «Per 50 voti servivano 5mila euro. A me per 200 me ne hanno dati 30mila», spiega Moio, in relazione alle amministrative del 2007, vinte dall’ex sindaco di Reggio e oggi governatore Peppe Scopelliti. Anche se – ha puntualizzato il collaboratore – la compravendita è avvenuta anche in occasione di altre elezioni. Una modalità di scambio che vede i clan di ‘ndrangheta referenti privilegiati di politici in cerca di consenso.
Moio riferisce anche di un episodio nel quale un politico – di cui non fa il nome – avrebbe richiesto l’appoggio, dietro pagamento, del boss Giovanni Tegano. «Ma lui rifiutò perché aveva preso un impegno con un altro soggetto», ha aggiunto il pentito.

SOCIETÀ MISTE IN MANO AI CLAN
Nel corso della sua deposizione, Moio ha anche ricostruito il controllo dei clan sulle società miste del Comune. In particolare su Leonia e Multiservizi, le municipalizzate al centro della relazione commissariale per via delle infiltrazioni delle cosche Fontana e Tegano. Ma il sistema ricostruito dal collaboratore di giustizia è più complesso. Infatti, stando alle sue dichiarazioni, in capo alle due società miste «c’era una gestione unitaria» da parte di tutte le famiglie. In particolare, una fetta dei proventi dei lavori effettuati dalle due società finiva nella disponibilità delle cosche competenti per territorio. Il pentito ha spiegato il passaggio facendo riferimento ad almeno tre incontri tra gli esponenti della famiglia Tegano (tra cui lo stesso Moio, Michele Crudo e Carmine Polimeni) e Pietro Labate, boss del quartiere Gebbione. Quest’ultimo in particolare rivendicava la sua fetta di torta in quanto le due partecipate del Comune e la società New labor (che gestiva la pulizia dei treni) avevano effettuato dei lavori in zona Calamizzi, territorio “di competenza” dei Labate. «”Se c’è un pezzo di pane ce lo dividiamo”», avrebbe detto il boss dei “Ti mangio”, secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia. All’epoca di quegli incontri Paolo Schimizzi, nipote dei boss Giovanni e Pasquale Tegano era già scomparso, vittima di lupara bianca. Era lui – ha spiegato Moio – il responsabile della gestione illecita di Leonia e Multiservizi, affiancato da Paolo Rosario Caponera, «che faceva le veci di Peppe De Stefano». «Paolo Schimizzi aveva preso degli impegni precisi, ma fin quando c’è stato lui a gestire la cosa Pietro Labate di soldi non ne ha visti», ha spiegato Moio. Era stato Giovanni Tegano a dare questo ruolo a Schimizzi: «Lui riceveva le somme e poi le distribuiva. Teneva anche i contatti con Pino Rechichi e Giovanni Fontana». Anche quest’ultimo – ha aggiunto il collaboratore – consegnava i soldi al nipote dei Tegano, «tramite De Caria».
Le municipalizzate erano anche un serbatoio di posti di lavoro. «Per far assumere una ragazza nella Multiservizi mi ero rivolto direttamente a Pino Rechichi», ha raccontato Moio. Diversa, invece la situazione nella Leonia, «perché mio zio Giovanni aveva detto che non si poteva fare traffico. Assumere troppo personale avrebbe attirato l’attenzione».
Il collaboratore di giustizia riserva anche un passaggio sulla misteriosa scomparsa del nipote dei Tegano. «Ho capito che si trattava di una cosa familiare. Lui aveva l’incarico di mastro di giornata e sottraeva somme che spettavano a Giovanni Tegano». Dopo la sparizione di Paolo Schimizzi, secondo la ricostruzione di Moio, sarebbero stati Michele Crudo e Carmine Polimeni a “occuparsi” delle municipalizzate.

IL BATTESIMO DI MOIO
Roberto Moio conosce bene la famiglia Tegano. Prima del suo fidanzamento con Giovanna Polimeni, nipote dei boss Giovanni e Pasquale, per conto della cosca aveva partecipato ad alcune rapine e danneggiamenti. La consacrazione criminale arriva però con il “battesimo”, avvenuto a sei mesi dalla morte di Paolo De Stefano, il capo dei capi alleato con la famiglia Tegano. La cerimonia avvenne in un condominio della zona Sbarre nella disponibilità del boss Mico Libri. Con Moio quel giorno un’altra decina di ragazzi del quartiere Archi ottennero il grado di “picciotto”. Il pentito ha spiegato come avvenne la liturgia: «Immaginette sacre e coltellino, un segno sulla mano senza graffiare». Poi c’era la cosiddetta “copiata”, cioè i padrini che presentavano i nuovi affiliati e garantivano per loro. Quelli di Moio furono i fratelli Tegano.
«Da quel momento in poi per qualsiasi cosa, come bruciare una macchina, commettere un omicidio o anche fare un viaggio, bisognava chiedere il permesso alla famiglia», ha puntualizzato il pentito, che ha iniziato la collaborazione con la giustizia nel settembre 2010.

L’ATTENTATO A NINO IMERTI
Dopo il battesimo e per via del suo fidanzamento con la nipote dei Tegano, a poco a poco Roberto Moio diventa “uno che conta”. Gestisce da vicino i traffici di droga, armi, i soldi dei sequestri. È in quel periodo, in piena guerra di mafia, che incontra alcuni tra i maggiori esponenti della ‘ndrangheta calabrese. Il futuro pentito è soprattutto un uomo d’azione. C’è anche lui nel commando che doveva scrivere la sentenza di morte di Nino Imerti “nano feroce”, il boss di Fiumara di Muro tra i protagonisti principali della faida reggina. In quel gruppo di fuoco ci sono anche Francesco Polimeni, Giovanbattista Fracapane, Rocco Cassone e Saverio Cavalcanti. Malgrado le armi da guerra a disposizione, però, a morire non è Imerti, bensì il suo accompagnatore Enzo Condello e uno degli attentatori, Saverio Cavalcanti.

IL SUPREMO DOVEVA MORIRE
Il cartello De Stefano-Tegano voleva anche la morte di Pasquale Condello. Moio partecipò a una riunione in cui si discusse delle modalità di questa eliminazione. All’incontro – ha riferito il pentito – parteciparono i fratelli Peppe e Carmine De Stefano, Paolo Martino, Franco Coco Trovato, il futuro collaboratore Nino Fiume e Angelo Benestare. «Trovato diceva che bisognava mettere una bomba, ma loro non erano d’accordo perché sapevano che anche altri in seguito avrebbero potuto usare contro di loro la stessa arma».

I DE STEFANO IN LOMBARDIA
I legami dei De Stefano in Lombardia erano più che solidi. Era stato il capostipite Paolo a siglare accordi con le famiglie storiche trapiantate al Nord, su tutte i Barbaro, i Papalia e i Trimboli. «Prendevano i soldi della droga da tutti. I De Stefano hanno sempre investito in questi traffici», ha detto Moio. La loro testa di ponte era il boss Paolo Martino, «ma spesso si lamentavano perché non mandava i soldi» in Calabria.

LA FINE DELLA GUERRA
Le ultime fasi della faida che insanguinò Reggio dall’’85 al ’91 videro il ruolo delle grandi famiglie del mandamento ionico e tirrenico. Moio ricorda bene quel periodo. Fu Pasquale Tegano a dargli l’incarico di prendere il boss ‘Ntoni Nirta e di accompagnarlo a un summit a Sinopoli, dove a discutere la pace c’erano anche altri capi storici, come Mico Alvaro. «Avevo avuto l’ordine di riferire alle altre famiglie reggine di non sparare, che c’era una tregua. Il giorno dopo l’incontro ho saputo che era stato trovato un accordo». La pace è fatta. «Subito dopo alcune persone prima serrate in casa ricominciarono a uscire», ha ricordato il collaboratore di giustizia.

LE NUOVE REGOLE
Con la pax mafiosa si stabiliscono nuove regole e si fissano le zone di competenza. Moio è in grado di raccontare il momento esatto in cui i Tegano e i Condello ritrovano l’antica unione. Un incontro sulle colline di Archi, accanto al santuario di Sant’Antonio. Arrivano da strade opposte, i rappresentanti dei due clan rivali fino al ’91. Da una parte i boss Pasquale e Giovanni Tegano, dall’altra Pasquale e Domenico Condello. «Si abbracciarono», rammenta il pentito, che ricorda come al seguito dei boss ci fossero altri elementi di spicco delle rispettive cosche.

LA PROVINCIA DI REGGIO
Le famiglie di ‘ndrangheta capiscono che la pace è la soluzione più redditizia. Ogni clan ha la sua zona e i suoi interessi. Come nel “locale” di Archi, nel quale – secondo Moio – all’indomani della guerra vigeva l’indiscusso dominio dei De Stefano-Tegano-Condello. Una zona, questa, che si estendeva «da Gallico fino al ponte di San Pietro». Al vertice di “Reggio centro” imperavano «Pasquale Condello, Giovanni Tegano e i fratelli Orazio e Peppe De Stefano».

L’ASCESA DI PEPPE DE STEFANO
Il figlio di “don Paolino” aveva grandi ambizioni. Moio riferisce come il rampollo del potente casato di ‘ndrangheta si adoperasse in ogni modo per riprendere la carica di capo indiscusso che era stata del padre. Un’ascesa ostacolata da suo zio Orazio, che rivendicava quel ruolo per sé. «È cresciuto negli anni della guerra. Ha fatto i suoi omicidi. Morto il padre c’è il figlio, ma lo zio non era d’accordo», spiega il collaboratore di giustizia, per il quale «Peppe sa usare tutte le armi e ha dimostrato di essere all’altezza, mentre non sono mai venuto a conoscenza di un omicidio di Orazio». Ma al di là degli attriti interni ai De Stefano, Moio riconosce come quella famiglia abbia fatto la storia della mafia, non solo a Reggio e non solo in Calabria. «Contano più di tutti nella provincia e in ogni caso quel nome rimarrà», chiosa il pentito.

LE ESTORSIONI
Moio offre anche uno spaccato sul racket delle estorsioni in riva allo Stretto: «Sono gli appaltatori a portare i soldi. La tangente varia dal 5 al 10%, a seconda dell’entità dei lavori. Prima di iniziare, vanno dal parente di un mafioso e si fanno dire quello che devono fare». Questo solo per le ditte che non conoscono bene la realtà reggina. Tutti gli altri, invece, conoscono bene il sistema: «Il 90% degli imprenditori sa a chi rivolgersi».

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