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«Su di me dicono solo stupidaggini»

REGGIO CALABRIA Stupidaggini, tutte stupidaggini, versioni di comodo fatte di “voci di popolo” e notizie di cronaca costruite ad arte per ottenere benefici e sconti di pena: è così che Maurizio Corte…

Pubblicato il: 05/11/2012 – 20:23
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«Su di me dicono solo stupidaggini»

REGGIO CALABRIA Stupidaggini, tutte stupidaggini, versioni di comodo fatte di “voci di popolo” e notizie di cronaca costruite ad arte per ottenere benefici e sconti di pena: è così che Maurizio Cortese, uno dei principali imputati al processo “Epilogo”, definisce le dichiarazioni dei pentiti che lo inchiodano come capo del “banco nuovo”, le giovani leve della cosca Serraino, che avrebbe avuto il compito di guidare e controllare su diretto mandato di Alessandro Serraino e Fabio Giardiniere, reggenti del clan della montagna dopo la morte dell`anziano patriarca don Mico.
Un ruolo che gli è valso un`accusa e un processo per associazione per delinquere di stampo mafioso e che ben quattro pentiti – Vittorio Fregona, Consolato Villani, Carlo Mesiano e Marco Marino – hanno confermato. Tutti straordinariamente concordi nell`indicare Cortese come il soggetto incaricato dal clan della gestione delle intraprendenti e rissose nuove generazioni. Tutti – a detta di Cortese – ugualmente inattendibili. «Tutte le dichiarazioni di Fregona sono false, io lui non l`ho neanche mai conosciuto», esordisce rispondendo alle domande del pm Giuseppe Lombardo. Eppure il pentito Fregona era un tempo uno dei “giovanotti” che gravitava attorno alla cosca Serraino, cognato di quel Pirrello che del clan era membro a tutti gli effetti. Ma questo – sottolineerà con forza Cortese, appellandosi adesso al presidente Silvana Grasso, adesso al pm Lombardo –  «io l`ho saputo solo dopo, quando ero in carcere». Chi invece ammette di conoscere – e da tempo – è Consolato Villani: «Lui l`ho conosciuto nel carcere minorile, ma lo vedevo anche prima quando lavoravo con i suoi cugini, i fratelli Lo Giudice, al banco dei meloni e lui passava. Ho lavorato lì fino a quando non mi hanno arrestato da minorenne».
Ma proprio contro Villani, Cortese prepara una sua personalissima arringa difensiva, sventolando davanti a un perplesso Tribunale e a un più che irritato pm Lombardo, un paio di fogli che riportano le dichiarazioni del pentito Maurizio Lo Giudice e che – a suo dire – sbugiarderebbero il pentito che lo accusa. «Villani non sa niente di me e io non gli ho mai detto niente. Siamo stati compagni di cella al minorile ma non abbiamo mai avuto rapporti, io mi scrivevo con suo cugino Ulisse che non gli mandava neanche i saluti», afferma stizzito Cortese per il quale «Villani è solo un poveretto che non vuole farsi la galera».
Medesimo intento perseguito, a detta di Cortese, da Carlo Mesiano, il terzo pentito che contro di lui ha puntato il dito descrivendo in dettaglio i dieci giorni di latitanza che sarebbero seguiti all`omicidio del giovane nomade, che ha spedito l`odierno imputato ancora minorenne dietro le sbarre. Circostanza – anche questa – che Cortese si rifiuta di ammettere: «Io non sono mai stato latitante a Terreti, né mi sono mai nascosto nella chiesa di Aretina». Affermazione di cui Cortese si dice tanto sicuro da tornare a chiedere un confronto diretto con i due pentiti, istanza già presentata nelle precedenti udienze e rispedita al mittente da pm e Tribunale.
Altrettanto impegno non profonde Cortese per smentire il quarto pentito che lo accusa, Carlo Mesiano, liquidato con una frase lapidaria: «Me lo ricordo ad una festa di Carnevale, era vestito da carabiniere», dice quasi con disgusto.
E proprio i carabinieri – e quelli della Stazione di Cataforio che erano incaricati di controllarlo quando era in regime di semilibertà – sono di Cortese la personalissima bestia nera. Dagli uomini dell`Arma, l`odierno imputato sarebbe stato a suo dire perseguitato con perquisizioni, controlli continui, battute. «Per colpa loro ho avuto anche la sospensione della semilibertà perché in occasione di un controllo è stato identificato a casa di mio suocero un cittadino extracomunitario, che altri non era che il suo badante. Nel verbale i carabinieri hanno scritto che era pregiudicato e per questo ho fatto trenta giorni di carcere, ma si trattava solo di un`omonimia. In quel mese però è morta mia figlia», afferma Cortese che avrebbe addirittura iniziato a ricorrere a psicofarmaci per contenere l`ansia e lo stress derivanti dal fiato che gli investigatori di Cataforio mantenevano sul suo collo.
Eppure quegli stessi uomini contro cui l`odierno imputato punta il dito, l`appuntato Oronzo Bianco e il maresciallo Davide D`Aquila che della zona sono la memoria storica, ascoltati nei mesi scorsi come testimoni, hanno raccontato una verità molto diversa. Soprattutto l`appuntato Bianco che dalle giovani leve dei Serraino sarebbe stato anche minacciato. Il militare si era “permesso” di fermare a un posto di blocco Fabio Giardiniere, accompagnato da Nino Barbaro e dallo stesso Cortese, e comminare loro una multa per delle immagini pubblicitarie abusive sulle fiancate.  In quell`occasione, ha rivelato Bianco in udienza, Giardiniere, genero di don Mico Serraino all`epoca ancora in vita, gli avrebbe detto chiaramente: «Spera che mio suocero viva altri cento anni, altrimenti le cose cambieranno specialmente per te, fino a quando mi mantiene la testa mi mantengo calmo, poi quando non mi terrà più la testa vedremo come andrà a finire».
Un episodio confermato anche da una conversazione – ascoltata e registrata dalle cimici del Ros – in cui Giardiniere e Cortese, commentando con Lisciandro Serraino l`episodio, avrebbero espresso all`indirizzo del militare chiare minacce.
«Era tutto uno scherzo», ha tentato di giustificarsi oggi Cortese in udienza, che allo stesso modo ha derubricato a «questioni di lavoro e solo di lavoro» le frequentissime conversazioni con Fabio Giardiniere, per conto del quale – pur non avendo né accordi né contratti né guadagni – proponeva forniture di caffè. «Al paese si usa così, io lo aiutavo con i clienti e per il caffè, lui aiutava me con le forniture di farine». Un altro lavoro che formalmente Cortese non ha mai avuto, ma del quale si sarebbe assunto la responsabilità durante la gravidanza della moglie. Ma che per gli inquirenti altro non sarebbe che l`ulteriore incarico assegnato dal reggente al giovane proconsole.
Un ruolo che Cortese respinge, cercando disperatamente di smontare quel «noi» che si ripete regolarmente nelle conversazioni intercettate, che gli inquirenti identificano nel “banco nuovo” di giovani leve della cosca Serraino, ma che quello che secondo i pm ne è il capo tenta di derubricare a «noi, i ragazzi che lavoravano per me, quelli  della comitiva».
Quelli che tutti insieme inviano un cuscino di fiori al funerale di don Mico Serraino firmato “gli amici” o la cui partecipazione al matrimonio di Ivan Nava – imputato nel medesimo procedimento e già condannato in abbreviato a dieci anni di reclusione – viene gestita direttamente da Cortese. Una cerimonia alla quale l`odierno imputato e i giovani che aveva attorno sarebbero stati invitati perché, da semplice cliente, Ivan Nava nel giro di soli cinque mesi sarebbe diventato «amico di tutti. E poi ormai in Calabria non si fanno più i regali ma le buste, più sono gli invitati, più pesante è la busta». Della questione lo stesso Cortese – intercettato dagli investigatori – chiacchiera al telefono con il futuro testimone dello sposo, Franco Giordano, personaggio legato alla cosca Rosmini-Serraino al quale comunicherà: «Di noi verranno due». Questioni logistiche e di organizzazione del lavoro al negozio “La Selleria” e all`azienda agricola, tenterà di giustificarsi Cortese.
Lo stesso Cortese a cui – stando alle conversazioni intercettate – viene regolarmente chiesto conto delle azioni dei suoi pupilli. Ma sostiene Cortese rispondendo alle domande del suo legale, l`avvocato Giacomo Iaria: «Non esiste nessun gruppo Cortese, io non sono il capo di nessuno».  Di sé quello che gli inquirenti considerano il capo delle nuove leve del clan della montagna si limita a dire solo: «Sono un ragazzo che in passato ha sbagliato, ha pagato e stava cercando di farsi una vita lavorando onestamente». Una versione ch e starà al Tribunale presieduto dal giudice Silvana Grasso giudicare.

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