Dal Vaticano a Fincantieri, dalla Siram a Grandi Navi veloci, «la stella a cinque punte» – così l’imprenditore veneto Stefano Bonet definisce il suo gruppo societario – era in grado di accaparrarsi tutto. Ma lungi da reminiscenze rivoluzionarie, la compagine imprenditoriale sarebbe stata il mezzo necessario a Belsito e soci non solo per far transitare e occultare fiumi di quattrini dello Stato, della Lega, ma soprattutto denaro anche di provenienza sconosciuta. Soldi che Belsito fin dal 2004 faceva arrivare nelle casse della Lega. Soldi che dopo prendevano il largo grazie al meccanismo messo a disposizione da Bonet. Scrivono infatti gli inquirenti: «La gestione della tesoreria del partito politico Lega Nord è avvenuta nella più completa opacità fin dal 2004 e comunque, per ciò che riguarda Belsito, fin da quando questi ha cominciato a ricoprire l`incarico di tesoriere. Egli ha alimentato la cassa con denaro non contabilizzato ed ha effettuato pagamenti e impieghi, anch`essi non contabilizzati o contabilizzati in modo inveritiero». E non si tratta solo – si legge nella nota del Noe denominata “I costi della famiglia” e richiamata nell’ordinanza – degli esborsi effettuati per esigenze personali di familiari dell’allora leader della Lega Nord, Umberto Bossi, come quello yacht da 2,5 milioni di euro, che il figlio del Senatur, Riccardo, avrebbe a suo tempo acquistato avvalendosi di un prestanome. A pesare nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato oggi in carcere l’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, e dei soci a vario titolo coinvolti nella sua rete, Romolo Girardelli e Stefano Bonet – Stefano Lombardelli, invece, è latitante – sono soprattutto i proventi di affari e i rapporti attraverso cui il gruppo collezionava commesse in materia di ricerca, tali da garantire crediti di imposta al committente, che a sua volta tornava a girarli al gruppo.
I SOCI DEL TESORIERE E L`OMBRA LUNGA DELLA `NDRANGHETA
Belsito e soci si sarebbero preoccupati di occultare soldi su conti esteri attraverso canali riservati e faccendieri sempre a disposizione. Un meccanismo rodato che è stato ricostruito in dettaglio dalla Procura di Milano e attraverso cui, per anni, sarebbero spariti milioni di euro. Ma non solo. Sull’intero sistema – come ipotizzava l’indagine che ancora oggi conduce sui medesimi soggetti il pm Giuseppe Lombardo, della Dda di Reggio Calabria – si staglia l’ombra lunga della `ndrangheta, che nonostante non compaia mai nell’ordinanza milanese, traspare dai nomi stessi di alcuni dei personaggi oggi arrestati. Soggetti ben noti agli inquirenti, a partire da quel Romolo Girardelli, socio storico di Belsito, cui l’ex tesoriere della Lega farà l’errore di pestare i piedi e che con una campagna stampa guidata segnerà l’inizio della bufera destinata a travolgerlo. «Da persona fedele di Belsito, gli si rivolta contro poiché il politico non suddivide i benefit ottenuti da Mafrici, Bonet», scriveva la Dia in un’informativa di circa un anno fa. Un gioco pericoloso per l’ex tesoriere del Carroccio e non solo perché Girardelli – “l’Ammiraglio” per i più – è ritenuto un uomo d’affari spregiudicato. Ma soprattutto perché è considerato un uomo dei De Stefano. È proprio per conto della cosca De Stefano che l`Ammiraglio assieme agli altri indagati avrebbe compiuto, secondo gli inquirenti, sofisticate operazioni bancarie di esterovestizione e filtrazione per occultare la provenienza illecita delle risorse. «Il suo ruolo non è secondario, anzi – scriveva il gip Francesco Petrone nel decreto di sequestro a carico di Belsito un anno fa – basta attenzionare quanto emerge dalla conversazione captata il 29 agosto 2011 tra l`avvocato Bruno Mafrici e Francesco Belsito per capirne il peso, allorquando i due si lamentano della prepotenza nella gestione degli affari da parte del Girardelli, che pretende il 50% e che da questa somma lo stesso non paga nulla mentre il Belsito è costretto a pagare le tasse (emissione di fatture per schermare le operazioni)».
IL MISTERO MAFRICI
E proprio il sedicente avvocato Mafrici, calabrese d`origine ma milanese per business e affezione, è secondo gli inquirenti un’alta figura chiave per il sistema Belsito. Già da oltre un anno nel mirino della Procura di Reggio Calabria, Mafrici è oggi indagato anche a Milano. Di lui, scrivono i magistrati milanesi: «I suoi rapporti con Belsito, al quale più che agli altri Mafrici è legato, sono ancora oscuri e più di quelli (dello stesso Belsito) con Girardelli e Lombardelli. Belsito ha procurato a Mafrici un badge per l`ingresso alla Camera dei deputati e certamente Mafrici fa parte della squadra». E nella squadra gioca un ruolo non di secondo ordine. È lui – ad esempio – a mettere a disposizione gli uffici della Mgim, che gli inquirenti ritengono sede dell’associazione che a Belsito fa capo. Ma lo studio – con sede in via Durini 14, a un passo da San Babila cuore della destra milanese e della finanza che conta – è una creatura dell’ex tesoriere dei Nar, Lino Guaglianone, un altro calabrese che a Milano ha fatto fortuna senza mai dimenticare la terra d’origine, posto che per lo più calabresi sono i clienti che gestisce e riceve in quelle stesse stanze che Mafrici metteva a disposizione di Belsito e i suoi.
Allo stato Guaglianone non è indagato, ma gli inquirenti da tempo puntano a comprendere la natura dei suoi rapporti con Mafrici, laureato in giurisprudenza, ma mai abilitato, accolto a braccia aperte in uno degli studi più influenti d’Italia, per il quale – più o meno ufficialmente – curava i rapporti tra imprenditori, politici e lobbisti. E forse non solo. Saranno probabilmente altre inchieste e altre Procure a chiarire se – come ipotizzato dal pm Lombardo – dietro la galassia di interessi rappresentata da un personaggio come Mafrici, ci sono i De Stefano, anima nera e vero dominus della `ndrangheta reggina in grado di proiettarsi agevolmente nella galassia della finanza creativa, senza perdere un grammo di potere a Reggio Calabria. In valutazioni di questo genere i pm milanesi non si avventurano. Di certo però registrano un dato quanto meno curioso: nonostante il sedicente avvocato non abbia alcuna competenza specifica in materia, non solo ottiene da Belsito un incarico da consulente presso il ministero della Semplificazione di cui era sottosegretario, ma viene introdotto in Siram dall’imprenditore Stefano Bonet. E curiosamente è la Polare di Bonet a pagare – su sollecitazione di Belsito – la consulenza da 54mila euro che Mafrici avrebbe offerto a Siram per cause amministrative-contabili e fiscali. Una circostanza che lo stesso sedicente avvocato confermerà interrogato dal pm Giuseppe Lombardo. «Il Belsito mi propose, dopo qualche tempo, di fare un ricorso davanti al Tar Veneto, e poi un ricorso straordinario al Capo dello Stato: si trattava di un ricorso relativo ad una gara d’appalto a cui avevano preso parte Polare S.c.a.r.l. e Siram S.p.a. Sono stato retribuito per la mia opera di consulenza con la somma complessiva di € 54.000,00, per l’attività svolta tanto a favore di Polare che di Siram: in relazione a tali attività sono stato retribuito da Polare S.c.a.r.l.».
Peccato però che tale attività non solo non è stata mai svolta – annotano gli inquirenti – ma lo stesso Mafrici non avrebbe mai avuto titolo a farlo perché mai abilitato alla professione forense. Un’attività che però Bonet accetta di buon grado di pagare perché – dice, intercettato, mentre parla con la sua segretaria, Nadia Arcolin – è «un`operazione politica, per la quale bisogna pagare e fine della questione».
L`AFFARE SIRAM
A propiziare i rapporti fra la Siram e l’imprenditore veneto – afferma di fronte ai magistrati Luciano Campagnaro, responsabile risorse umane di Polare – sarebbe stato proprio Francesco Belsito. «Il ruolo di Belsito, oltre che finalizzato ad agevolare i rapporti con Siram, era destinato ad agevolare, in virtù del suo ruolo polit
ico, la nascita di nuove opportunità di lavoro per Polare. In proposito – aggiunge l’ex dipendente di Bonet – ricordo che molto spesso le riunioni del lunedì vertevano sul fatto che di lì a poco sarebbero arrivate, in Polare, commesse da Fincantieri, propiziate dall`attività di lobbying di Belsito». Sarà invece il faccendiere Paolo Scala, oggi indagato assieme agli altri per riciclaggio, a rivelare ai magistrati la natura dei rapporti fra Bonet e il colosso dell’energia, mattatore di appalti in tutta Italia. «Il cliente principale di Bonet, per quanto a me noto, era comunque la Siram di Milano – dice il promotore finanziario –. So che si incontrava di frequente in Siram con persone di alto livello o della direzione commerciale o della direzione generale. So che i rapporti tra Bonet e la Siram avevano incontrato un momento di stallo per via del cambiamento dei vertici di quell`impresa a cavallo tra la fine del 2010 e l`inizio del 2011; rapporti che tuttavia erano poi ripresi in modo significativo; tanto che egli poteva vantare un incremento importante del suo complessivo fatturato proprio per merito della ripresa di tali rapporti. Un fatturato imponente, racconta Scala, pari a 27-28 milioni di euro per il 2011, con un piano triennale che prevedeva di superare la soglia dei 100 milioni di euro. Un affare che – aggiunge, confermando quanto già dichiarato da Campagnaro – Bonet avrebbe chiuso grazie Belsito, che «si era anche vantato che per il suo intervento era stata sbloccata la linea di credito che Mps aveva accordato a Polare. In favore di Siram, Bonet mi riferiva di aver posto in essere tutta l`attività necessaria a formare un credito di imposta… In altra circostanza che ricordo bene, il 12 gennaio 2012, presso lo studio in via Durini 14, sentii parlare Belsito e Bonet in modo esplicito di come funzionava il finanziamento della politica. Diceva Belsito che gli imprenditori che effettuavano i finanziamenti ai partiti ufficialmente, esigevano di ottenere la restituzione in nero di parte della somma pagata. Questo discorso si collocava a margine di un discorso più generale, nell`ambito del quale Belsito aveva effettuato una richiesta di pagamento a Bonet, dicendo appunto che la politica funzionava in questo modo e che lui doveva restituire parte del denaro ricevuto agli imprenditori, seconda la logica che ho prima descritto».
Ma anche l’affare con la Siram nasconderebbe una truffa. A pagare è lo Stato, che con i crediti d’imposta dovrebbe agevolare l’attività delle aziende. Peccato però che tra il colosso dell’energia e le società di Bonet – Polare Scarl e Marco Polo – non ci sarebbe stato alcun reale scambio né di beni né di servizi. A metterlo nero su bianco – si legge nell’ordinanza – è stata prima l’Uif, Unità di informazione finanziaria di Banca d’Italia, quindi la guardia di finanza. Chiamate a monitorare le triangolazioni di denaro fra le tre società arrivano a conclusioni univoche: «Di fatto, i costi rappresentativi dell`investimento in ricerca e sviluppo su cui il committente Siram spa potrà vantare un credito di imposta pari al 40%, tornano pressoché integralmente, sotto forma di altre prestazioni giustificate da apposite fatture, alla stessa impresa originaria (appunto la Siram). Ciò induce ad ipotizzare, dal punto di vista finanziario, che le transazioni siano in realtà fittizie e abbiano il solo scopo di procurare al committente un risparmio d`imposta non dovuto. La inspiegabilità della circolarità dei flussi finanziari, senza dunque effettivo spostamento di ricchezza, è argomento sufficiente per desumere la fittizietà delle transazioni».
Alle medesime conclusioni giungeranno gli uomini della Finanza che al report dell’unità di intelligence finanziaria di Bankitalia aggiungeranno che «Polare, società che stipula nell`ottobre del 2008 con Siram il contratto sulle ricerche, integrato nel dicembre dello stesso anno, per un valore di 18 milioni di euro circa, è costituita da Bonet ad hoc per l`affare con Siram appena pochi giorni prima della firma dell`accordo. Dunque Polare è società che non può aver svolto alcuna pregressa attività di ricerca, ma che neppure risulta aver eseguito formalmente l`attività di ricerca commissionata da Siram posto che secondo le indicazioni che lo stesso Bonet ha fornito alla banca dalla quale proviene la segnalazione, ha a sua volta sub-commissionato i lavori alla Marco Polo, la quale ultima, secondo il suo oggetto sociale, dovrebbe occuparsi di attività di stampa ed editoria». Attività che anche il colosso dell’energia e dei pubblici appalti avrebbe – secondo i finanzieri – perseguito consapevolmente perché «in ogni caso, guardata dal punto di vista della Siram, l`operazione, sotto il profilo della sua effettività, non sembra sorretta da ragionevolezza. La società milanese, infatti, avrebbe sottoscritto impegni di spesa ed effettivamente sborsato 18 milioni di euro, senza sincerarsi della serietà e delle caratteristiche dell`impresa commissionaria, presentatasi (costituita) poche settimane prima della firma del contratto. Oltre alla insussistenza delle operazioni sottostanti ai flussi finanziari in esame, vi è un`altra frode, che ha consentito a Siram di usufruire di un credito di imposta pari al 40% dei costi (solo apparentemente) sostenuti, anziché del 10% come stabilisce in via ordinaria la disciplina. La maggiore percentuale del 40% è riservata dalla legge alle imprese che per eseguire l`attività di ricerca si siano avvalse di una università o di un ente pubblico di ricerca o di altro organismo di ricerca».
Affari necessari al gruppo di Belsito per accumulare un tesoretto che, secondo gli inquirenti, sarebbe stato fatto sparire poi grazie all’intervento di Bonet tra le nebbie finanziarie dei conti esteri. Affari che Bonet – rivela Scala – si riprometteva di estendere ben oltre la Siram. «Con il Vaticano Bonet voleva ottenere la gestione del sistema di ottimizzazione sotto il profilo della organizzazione ed efficienza, dell`intero settore sanitario facente capo al Vaticano stesso; il quale, per quanto Bonet riferiva, era esteso a livello internazionale con migliaia di strutture. Bonet aveva individuato un soggetto che avrebbe dovuto consentire l`accesso ad un alto prelato in quel settore». (0050)
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