"Shark", pm: "Sentenza illogica e contradditoria"
REGGIO CALABRIA “Illogica, contraddittoria, nonché viziata da diversi errori di fatto, in alcuni passaggi assolutamente carente”. Non è certo diplomatico il pm Antonio De Bernardo nel presentare i mo…

REGGIO CALABRIA “Illogica, contraddittoria, nonché viziata da diversi errori di fatto, in alcuni passaggi assolutamente carente”. Non è certo diplomatico il pm Antonio De Bernardo nel presentare i motivi che hanno spinto la Dda a fare appello contro la sentenza di primo grado del processo “Shark”, conclusasi con la condanna per Franco Maiorana, Rocco Aversa, Rocco Iennaro e Vincenzo Cecere (limitatamente a un capo di imputazione), ma che ha graziato il boss Salvatore Cordì. E il pm, che ha coordinato l’indagine e sostenuto l’accusa in dibattimento, non ci sta a conformarsi con “una motivazione che, oltre ad essere viziata da errori di fatto e di diritto, appare per questa ragione, anche illogica e contraddittoria”.
Per i giudici di primo grado infatti, Cordì andava assolto perché nonostante la fitta corrispondenza con picciotti e gregari del clan rimasti fuori dal carcere, non ci sarebbe “alcun comportamento materiale che possa essere apprezzato, se non come attivo contributo alla vita dell’associazione, come affermazione all’esterno della disponibilità a continuare a contribuire agli scopi della cosca nell’eventualità della scarcerazione”.
Motivazioni che per il pm De Bernardo non solo sono in netto contrasto con l’orientamento della Corte di Cassazione, per la quale – ricorda il sostituto – basta “contributo oggettivamente apprezzabile alla vita e all’organizzazione del gruppo stesso anche se a carattere solo morale (come ad esempio attraverso manifestazioni di solidarietà rivolte all`esterno del carcere)”, ma soprattutto “sono viziati, oltre che dal malinteso giuridico e dalle illogicità e contraddizioni sopra già sottolineati, anche da alcune erronee valutazioni del materiale probatorio”.
Ed è nel ripercorrere punto per punto intercettazioni e missive che a suo parere inchiodano Salvatore Cordì a un ruolo da boss che ha mantenuto intatto nonostante la detenzione, che il pm Antonio De Bernardo ricostruisce in dettaglio la strategia dei clan Cataldo e Cordì, massacratisi mutuamente in una faida decennale, interrotta da una tregua che nel 2010 si è cementata nella comune manipolazione delle prove nei procedimenti in corso. I clan avrebbero infatti concordato di negare in sede processuale qualsiasi elemento che corroborasse la tesi della faida, ricostruita dalla Dda reggina omicidio dopo omicidio, procedimento dopo procedimento, infliggendo pene pesantissime a personaggi di peso e di fila di entrambi i clan. Un prezzo troppo alto da pagare per le due consorterie, così come per le altre ndrine della zona i cui affari venivano disturbati dalle pressanti attenzioni degli inquirenti, messi sull’avviso dalla lunga scia di sangue che ha interessato la Locride. Per questo dopo decenni di omicidi, cosche storicamente rivali come i Cataldo e i Cordì avrebbero deciso di scendere a patti. Per questo avrebbero chiesto a Domenico Oppedisano di scagionare gli autori dell’omicidio di Salvatore Cordì, per il quale Antonio Cataldo – capo indiscusso dello schieramento avversario – era stato individuato come mandante. Un’incomprensibile “infamità” – come la definirà lo stesso Oppedisano interrogato dai pm – che lo indurrà a decidere di collaborare. Ma nel medesimo solco si inserirebbe anche l’altrimenti incomprensibile cartolina di auguri che Salvatore Cordì proprio nello stesso periodo invia a Tommaso Costa, boss dell’omonimo clan, storico alleato dei Cataldo. Per i pm una prova cristallina dell’avvenuta pacificazione, che lo stesso Cordì si preoccupa di comunicare a tutte le consorterie coinvolte nella guerra che ha insanguinato Locri e Siderno.
Passaggi che il pm De Bernardo ricostruisce in dettaglio nella sua richiesta d’appello contro la sentenza di primo grado contro l’assoluzione di Cordì, che era ed è – sostiene – capo indiscusso dell’omonimo clan. Non fa sconti il sostituto della Dda reggina nel sostenere la propria argomentazione, ricordando che “il Cordì, esprime aspre critiche al comportamento dei propri cugini (e associati), indica i comportamenti da tenere, lancia messaggi di compattezza ed unità del gruppo familiare (e mafioso) nel difficile momento della ripresa della faida, si preoccupa del fatto che il comportamento – a suo avviso dissennato e scorretto – dei parenti “liberi” possa compromettere il prestigio e l’onore del clan all’interno del circuito carcerario”. Ma è soprattutto quando l’organizzazione entra in fibrillazione che Cordì interviene con tutta l’autorità di un capo che ai suoi detta la linea e impone contromisure. Domenico Novella, giovanissimo affiliato, è appena stato arrestato. Chi sta fuori lo sa, il picciotto potrebbe pentirsi e iniziare a parlare con i pm. Ne è cosciente anche il boss Cordì che ai familiari – esponenti di peso dell’organizzazione – come Antonio Cordì “il ragioniere”, poi defunto, e Cosimo Cordì, scrive chiaramente “di far “pesare” sulle scelte del Novella la costante “attenzione” degli esponenti più autorevoli della famiglia in modo da condizionarlo o comunque da ottenere preziose informazioni in grado di rassicurare gli associati o di confermare i sospetti sul rischio di collaborazione da parte del giovane affiliato”.
Per il pm de Bernardo, “è evidente che contribuire alla circolazione di informazioni ed alla attività di pressione sul Novella, in un frangente assolutamente delicato per la vita dell’organizzazione, rappresenta un contributo morale ma anche materiale di estrema importanza, completamente ignorato dal Tribunale”
In sintesi, si legge nella richiesta di appello, presentata contestualmente a un’istanza di integrazione di istruttoria, sono almeno tre i momenti fondamentali della storia recente dei Cordì in cui il boss graziato dalla sentenza di primo grado ha giocato un ruolo fondamentale: quello della ripresa della faida con i Cataldo (2005); quello dell’arresto di Novella e del suo imminente pentimento (2006); quello della pace con i Cataldo e della conseguente strategia di “negazione” della faida finalizzata all’aggiustamento dei processi (2010). “In tutte queste occasioni – scrive il pm – l’imputato non solo manifesta la sua solidarietà al gruppo (e ciò già basterebbe a condannarlo), ma esprime il suo autorevole giudizio sui comportamenti da adottare, favorisce la circolazione delle informazioni tra gli esponenti apicali della famiglia, contribuisce alle “pressioni” sul Novella immediatamente prima della sua collaborazione, si fa strumento della strategia della “negazione” della faida e di inquinamento della acquisizioni processuali, inviando una paradossale ed estemporanea cartolina di auguri al leader dei Costa di Siderno, storici alleati dei Cataldo”. Elementi fin troppo solidi, che – forse – se non attentamente valutati potrebbero indurre a pensare che la strategia negazionista delle cosche di Locri e Siderno si è rivelata vincente. (0050)