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«Dodici anni di reclusione per Siclari»

REGGIO CALABRIA Dodici anni di reclusione: è questa la richiesta di condanna avanzata dal pm Antonio De Bernardo per Pietro Siclari, fino al giorno del suo arresto nome e volto noto della borghesia r…

Pubblicato il: 22/05/2013 – 15:25
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«Dodici anni di reclusione per Siclari»

REGGIO CALABRIA Dodici anni di reclusione: è questa la richiesta di condanna avanzata dal pm Antonio De Bernardo per Pietro Siclari, fino al giorno del suo arresto nome e volto noto della borghesia reggina, oggi accusato di aver costruito le sue fortune grazie all’intervento di `ndrine di peso nel panorama criminale in città, come i Libri di Cannavò e gli Alvaro di Sinopoli. Insieme a lui – ha tuonato il pm della Dda reggina – devono essere condannati  a nove anni di reclusione ciascuno Pasquale Buda e Francesco Ranieri.
Il sostituto procuratore Antonio De Bernardo nel corso della requisitoria al processo Entourage, ha ripercorso tutti gli elementi di prova collezionati dall’inchiesta prima e confermati nel corso del lungo dibattimento poi.
L’indagine aveva permesso di far luce sul cartello di imprese che avrebbe imposto il proprio monopolio sugli appalti pubblici a Reggio, grazie a personaggi che conoscevano bene i meccanismi della normativa in materia di pubblici incanti ed altrettanto bene erano in grado di aggirarla, predisponendo a tavolino le offerte in modo da preordinare il nome della ditta vincitrice.
Un sistema che – in linea con altre inchieste del passato – aveva svelato di fatto l’esistenza di una torta di appalti che in pochi potevano spartirsi, salvo concedere qualche briciola alle aziende esterne al cartello, in cambio dell’imposizione di forniture e subappalti. Ma l’articolata indagine Entourage ha permesso anche di far luce sulla figura di Siclari, ufficialmente vittima di una rapina nel 2006 ad opera di un dipendente licenziato. Non pago della denuncia alle autorità, l’imprenditore – facendo leva sui suoi rapporti con i Libri di Cannavò, gli Alvaro di Sinopoli e i Barbaro di Platì – non solo avrebbe avviato indagini parallele per stanare il colpevole prima delle autorità, ma una volta individuato ne avrebbe addirittura ipotizzato l’eliminazione. Un proposito che in seguito non si concretizzerà, stando a quanto emerso, per mancanza di disponibilità da parte degli uomini del clan.
A pagare per il crimine del figlio sarebbe stato comunque il padre, costretto a interrompere il rapporto di lavoro con la ditta di Siclari per la quale aveva iniziato a lavorare nel lontano 1984, rinunciando – secondo le ipotesi dell`accusa – anche alla buonuscita. Una vicenda che a Siclari è costata l’accusa di estorsione aggravata dalle modalità mafiose, ma che rischia di costare caro anche ai testimoni chiamati dalle difese a scagionarlo. Il pm De Bernardo ha chiesto infatti la trasmissione degli atti per falsa testimonianza per Francesco Cutrì e Giuseppe Alvaro.
Ufficialmente vittime dell`imprenditore, chiamati a testimoniare in dibattimento entrambi hanno risposto alle domande del pm con un rosario di «no, non so, non ricordo, non è successo, non mi risulta». Se Giuseppe Alvaro, parente di don Mico di Sinopoli, con il cui figlio si reca a Gambarie a una riunione con Siclari, in udienza ha dimostrato addirittura di avere difficoltà a ricordare il nome del congiunto, come quell`incontro testimoniato da quintali di intercettazioni, Cutrì sembrava addirittura non ricordare che il figlio fosse stato minacciato dall`ex datore di lavoro. Medesima richiesta è stata avanzata dal pm per Maria Scordo, moglie di Antonio Cutrì, e per il pm al pari degli altri reticente nel raccontare quanto successo al marito. (0020)

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