Le "verità" di De Stefano
REGGIO CALABRIA «De Stefano, lei lo sa che i suoi sottintesi hanno un peso?». Lucido, freddo, preciso nei dettagli, quasi chirurgico nelle allusioni che lascia o non lascia cadere al momento che lui…

REGGIO CALABRIA «De Stefano, lei lo sa che i suoi sottintesi hanno un peso?». Lucido, freddo, preciso nei dettagli, quasi chirurgico nelle allusioni che lascia o non lascia cadere al momento che lui ritiene opportuno, Giuseppe De Stefano è uno dei pochi grandi boss, provenienti da casati di `ndrangheta che ne hanno scritto di proprio pugno la storia, ad affrontare – volutamente – il confronto con il pm «per venire a capo con lei, dottore Lombardo, della situazione in cui mi trovo». Tra gli imputati blasonati del processo “Meta” è l’unico che lo abbia fatto. Ha detto no alle domande del pm Pasquale Condello, lo stesso ha fatto Giovanni Tegano, entrambi fedeli – forse – a quella consegna del silenzio che per gli uomini delle `ndrine si impone durante la detenzione. Giuseppe De Stefano – considerato dagli inquirenti il simbolo e il vertice di quella `ndrangheta nuova partorita dalla pax mafiosa del 91 – invece ha voluto sfidare il pm Lombardo sul terreno delle carte e dei riscontri, con cui ha condito quella sua “personale verità” – a più riprese invocata – in cui la `ndrangheta non esiste se non per i racconti di «giornali, libri e tv», tanto meno la cosca De Stefano, «nonostante le sentenze che accetto come definitive ma non perché siano giuste».
VITTIMA DI UN COGNOME
Si sente una vittima del proprio cognome Giuseppe De Stefano, l’erede di quel don Paolino che ha cambiato il volto della `ndrangheta legandone le sorti alla massoneria e all’eversione nera, trasformandola in agenzia di servizi a disposizione di sistemi molto più ampi della stessa Calabria. Ma di tutto questo, non c’è traccia nelle affermazioni e nei ricordi dell’erede del boss De Stefano, che afferma di non sapere perché suo padre sia stato ucciso o per quale motivo dall“85 al `91 a Reggio si siano contati i morti a decine, fino a superare quota settecento. «Per me in quel momento si è spenta la luce», afferma, ricordando che poco più di due mesi dopo avrebbe lasciato Reggio per trasferirsi a Roma, chiudendo – sostiene – per sempre una parentesi della propria vita. «Possibile che ad un figlio non venga la curiosità di sapere perché in un pomeriggio di ottobre gli viene ammazzato il padre? Questo significa due cose o che non le interessava o che lo sapeva già», lo provoca il pm Lombardo. Ma De Stefano non cede, glissa e rilancia: «Lei non ha considerato una terza possibilità: non mi interessava capire chi o perché lo avesse ucciso perché non mi appartengono determinati contesti e determinate logiche».
Un assaggio iniziale delle schermaglie che si protrarranno per quasi sette ore, durante le quali De Stefano tenterà di demolire le infinite risultanze a suo carico, ma soprattutto quello che di lui ha rivelato il pentito Nino Fiume.
OBIETTIVO DISTRUGGERE FIUME
Ex fidanzato della sorella Giorgia, per oltre un decennio presenza fissa a casa De Stefano, è stato lui a squarciare il velo sulla nuova generazione del casato di Archi. Ed è lui che De Stefano – che quasi rubando il mestiere ai suoi avvocati, dimostra di aver studiato a fondo le carte di questo come di altri procedimenti, alla ricerca di qualsiasi spunto possa essergli utile per dimostrare le proprie tesi – tenta scientificamente di demolire. Una missione cui l’erede di don Paolo – pur affermando di non voler neanche prendere in considerazione quelle che definisce «le infinite bugie» del pentito – si dedica anima e corpo. Non solo nega quanto di lui il pentito abbia detto a partire da quel ruolo di vertice cristallizzato nella carica di “capocrimine” che De Stefano – stando alle indagini – ha ottenuto durante la detenzione a Reggio Calabria. È la stessa attendibilità di Fiume, come uomo e come pentito, che – pezzo a pezzo – De Stefano cerca di demolire. Allo scopo, lascia cadere scientificamente nel corso della sua deposizione particolari sulla tossicodipendenza di Fiume, sull’assistenza psicologica ricevuta, su presunti comportamenti poco ortodossi nei confronti la sorella Giorgia – vero motivo della rottura con i due «di cui io non ho voluto sapere niente», dice De Stefano – ma soprattutto sui tentativi di approccio che con lui Fiume – all’epoca già collaboratore – avrebbe tentato, così come sugli incontri con lo storico pentito Giacomo Ubaldo Lauro che è «la mamma di tutte le tragedie» e Foschini «che è il collaboratore che mi ha fatto arrestare nel 2002».
Qualche stoccata la riserva anche alla presidente Silvana Grasso che – fa notare De Stefano – «mi sono permesso di ricusare perché mi ha già giudicato come gip nel 2002». Allusioni che non impensieriscono il pm Lombardo, che più di una volta ricorda a De Stefano: «Se ci basassimo solo su quello che Fiume ci ha detto, né io né lei saremmo qui in questo momento». Ci sono centinaia e centinaia di risultanze – sottolinea il pm – che fanno da riscontro alle parole del collaboratore. Ma per l’erede di don Paolino, Nino Fiume è un ragno di manzoniana memoria – sottolinea – che «attacca la sua verità a un punto solido e tesse la sua ragnatela di menzogne».
LA “VERA E PERSONALE VERITA`” DI PEPPE DE STEFANO
Non ci sarebbe nulla di vero, dunque, nelle parole del collaboratore che collocano Giuseppe De Stefano alle riunioni di Rosarno e Nicotera con cui la `ndrangheta disse no alla strategia stragista proposta da Cosa nostra. Tanto meno, afferma De Stefano, si sarebbe mai riunito con Pasquale Condello per stabilire il nuovo regime di estorsioni «perché non ho mai saputo niente di queste cose», o con Domenico Condello, «che conoscevo da prima, ma ho solo frequentato in carcere». E stando a quanto De Stefano afferma, non conoscerebbe neanche Matteo Alampi, pizzicato nel 2002 a chiacchierare con il boss Mico Libri della futura spartizione delle società miste cittadine e che – si ascolta – proprio con il giovane boss si sarebbe incontrato. Un’interpretazione che De Stefano contesta, così come dura oltre un’ora l’esame delle conversazioni intercettate nell’ufficio dell’imprenditore Ugo Marino, sottoposto a quella tentata estorsione di cui è proprio De Stefano a rispondere. Allo stesso modo – afferma – «mai ho avuto contatti con le amministrazioni comunali».
«COME FACCIO A ODIARE MIO ZIO?»
Ma quello che più di tutto l’erede di don Paolo ci tiene a smentire è l’esistenza di contrasti con il clan Tegano, con il quale «non c’è mai stato alcun tipo di attrito», si lascia scappare De Stefano, ammettendo implicitamente i rapporti solidi e prolungati con una consorteria mafiosa che più di una sentenza passata in giudicato afferma come tale – «ho chiesto io, rendendo spontanee dichiarazioni, al colonnello Giardina di cristallizzare nel tempo i periodi in cui ci sarebbero stati questi contrasti, in modo da poterli smentire con i fatti. Ci sono stati inviti a matrimoni, frequentazioni continue, dove sarebbero gli attriti?».
E ancor più veemenza usa De Stefano per negare l’esistenza di qualsiasi tipo di frizione fra lui e lo zio Orazio, dopo il matrimonio di questi con la nipote del boss Tegano, Antonietta Benestare, e per questo – hanno rivelato i pentiti e ricostruito gli inquirenti – divenuto troppo vicino ai Tegano e alle loro politiche, per non entrare in rotta di collisione con gli allora giovani e rampanti eredi di don Paolo. Una tesi che De Stefano non vuole accettare: «Come faccio a voler male a l’unico fratello di mio padre rimasto in vita? Fiume sa quanto bene voglio a mio zio e quanto lui ne voglia a me, per questo dice queste cose. È un viscido, è cattivo, ma ve lo assicuro con tutto me stesso che sono bugie».
Del resto – e l’erede di don Paolo ci tiene più volte a sottolinearlo – per lui la famiglia sta a significare esclusivamente il gruppo ristretto di familiari e «non cosca». Anche perché – afferma – «che a me risulti a Reggio Calabria la `ndrangheta non esiste. Leggendo “Crimine” ho scoperto una realtà per
me inimmaginabile, non ho mai sentito parlare di cariche, incontri, rituali di affiliazione». Ma non è la `ndrangheta di coppole e santini quella che il processo “Meta” sta giudicando. E forse, proprio per questo Peppe De Stefano potrebbe avere grosse difficoltà a far passare per buone le sue verità. Per provarci avrà – almeno – un’altra udienza a disposizione. (0080)