REGGIO CALABRIA Più delle loro parole, a contare sono i silenzi e gli imbarazzi, i non so e i non ricordo con cui sembrano quasi sentirsi obbligati a dribblare anche le domande più ovvie e banali. Chiamati oggi come testi a discarico dal collegio difensivo di Giovanni Rugolino – per la pubblica accusa, capolocale di Catona – gli operai della ditta di Domenico Barbieri – condannato in appello a cinque anni e dieci mesi nel filone abbreviato di Meta – hanno risposto di buon grado alle domande degli avvocati. Ma quando è toccato al pubblico ministero, Giuseppe Lombardo, prendere la parola, sembrano essere stati colpiti da una curiosa forma di amnesia. È un terrore quasi visibile quello che sembra paralizzare Antonino Delfino e Antonio Furci – rispettivamente operaio e autista di camion della ditta Barbieri – sottoposti al serrato controesame del pm.
A loro è toccato affermare che – nonostante danneggiamenti e episodi estorsivi cristallizzati anche in inequivocabili intercettazioni – in quei cantieri tutto è sempre filato liscio come l’olio, non sono mai arrivate minacce, né ci sono mai stati problemi. Una tesi che Antonino Delfino, operaio della ditta Barbieri, ha tentato di sostenere anche di fronte all’evidenza. È dalla sua viva voce che il 28 giugno 2007, hanno ascoltato il racconto da lui fatto al “principale” riguardo la poco piacevole chiacchierata avuta con un non meglio identificato «cugino di Domenico Cambareri», referente – stando alle risultanze investigative – del locale di Melia di Scilla. In quella telefonata – che gli inquirenti hanno ascoltato e registrato con estremo interesse – Delfino riferiva a Barbieri di essere stato avvicinato dal sedicente cugino di Cambareri, che, dopo avergli offerto il caffè, gli avrebbe ordinato di avvisare il titolare della ditta che «si portasse dagli amici, poiché intendevano salutarlo».
Un messaggio chiarissimo per gli investigatori per i quali «si trattava, in sostanza, di una richiesta estorsiva, espressa da Cambareri Domenico, che aveva inviato un proprio cugino, non meglio identificato a contattare i dipendenti della ditta Barbieri. È evidente, in questo caso, che l’atteggiamento tenuto dal Cambareri era da considerarsi una sorta di richiamo nei confronti del Barbieri che, operando nel proprio territorio criminale, non aveva ancora informato lo stesso Cambareri circa l’esecuzione dei lavori».
Per gli inquirenti, una chiara ed evidente testimonianza del nuovo regime di spartizione delle estorsioni imposto dal direttorio delle grandi famiglie – De Stefano, Tegano, Condello – all’indomani della seconda guerra di `ndrangheta, in base al quale – si legge nelle carte «tutti gli operatori economici, compresi quelli contigui ad associazioni mafiose, sono costretti al pagamento, qualora operano in aree diverse, da parte dell’organizzazione d’appartenenza, anche se tali somme, in linea di massima, vengono elargite, come ha fatto il Barbieri nella circostanza, sotto forma di regalie, definite convenzionalmente “pensieri”».
Ma quella telefonata Delfino prima nega addirittura di averla fatta, quindi sostiene di non ricordarla. «Sono passati troppi anni», prova a giustificarsi. E nonostante le sollecitazioni sul punto arrivate tanto dal pm Lombardo, tanto dalla presidente del Tribunale, Silvana Grasso, Delfino si ostina: «Confermo di non ricordare assolutamente la telefonata e di non avere nulla da dire, sono tranquillo con la mia coscienza».
Allo stesso modo affermerà di «conoscere solo di vista» Giovanni Rugolino e il cognato Pietro Morena, ma senza saper indicare né come né da quanto. Ovviamente sul loro conto – afferma Delfino – non ha mai saputo o sentito nulla che li relazionasse con la `ndrangheta. Dichiarazioni inaccettabili per il pm Lombardo, che di fronte all’ostinata reticenza del teste a rispondere compiutamente alle domande non ha potuto far altro che chiedere – e immediatamente ottenere – la trasmissione degli atti in Procura per reticenza e falsa testimonianza.
Stessa sorte che è toccata al secondo testimone, Antonio Furci, storico autista della ditta Barbieri, che nonostante più di vent’anni di lavoro alle dipendenze dei fratelli, sembra incapace di ricordare anche i nomi dei suoi colleghi di lavoro o dove fossero posizionati i cantieri in cui era impegnato. Un’amnesia che diventa pervicace quando a Furci viene chiesto di spiegare come conosca Giovanni Rugolino. «Ci scambiavamo un saluto cordiale», ripete come un mantra l’operaio che di più sembra non poter dire. Curiosamente sa per certo di non averlo mai visto in cantiere, ma non sa, non ricorda, non può dire dove l’abbia conosciuto, chi gliel’abbia presentato o chi gli abbia mai parlato di lui. Una versione che rimane inalterata nonostante venti minuti di controesame incalzante ma incapace di scalfire il muro di silenzio dietro cui Furci si è rifugiato. Un muro che neanche una denuncia «evidente reticenza e falsa testimonianza» è riuscita a intaccare. (0040)
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