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CASO LO GIUDICE | Il “Nano” contro la «cricca dell`antimafia»

È un uomo in fuga Nino Lo Giudice. Dice di esserlo perché teme di essere ucciso, dice che è entrato in un gioco più grande di lui (e su questo è difficile non credergli) ma nel dire continua a lancia…

Pubblicato il: 23/08/2013 – 20:00
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CASO LO GIUDICE | Il “Nano” contro la «cricca dell`antimafia»

È un uomo in fuga Nino Lo Giudice. Dice di esserlo perché teme di essere ucciso, dice che è entrato in un gioco più grande di lui (e su questo è difficile non credergli) ma nel dire continua a lanciare terribili accuse. Oggi che è in fuga, come ieri quando passava per un “affidabile” collaboratore di giustizia. E oggi come ieri i suoi principali bersagli sono importanti magistrati impegnati in scottanti inchieste di mafia.
Ieri accusava Alberto Cisterna, all`epoca vice di Grasso nella guida della Procura nazionale antimafia e lanciato per la successione a Pignatone nella guida della Dda di Reggio, di essere un corrotto al soldo della sua cosca. Oggi rivolta le accuse contro chi lo ha gestito e chiama in causa quella che indica come la «cricca dell`antimafia»: il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, l`aggiunto Michele Prestipino, la pm Beatrice Ronchi, da tempo di stanza a Bologna ma ancora applicata a Reggio con l`unico incarico di occuparsi dei processi che riguardano, appunto, Cisterna e Lo Giudice. Quasi un pm “ad personam”.
Perché Nino Lo Giudice decide di rompere il silenzio e spedire un nuovo lungo memoriale? La data che ci mette è quella del nove agosto poi mette insieme in maniera solo apparentemente scoordinata pezzi della sua vita. In mezzo inserisce messaggi chiari, diretti a chi ha le chiavi necessarie per leggerli. A esempio quando chiede siano rese note le parti mancanti degli audio e dei video che sarebbero nella memory card inviata col suo primo memoriale. Vi mancherebbero le riprese delle persone che avrebbero ritirato a casa sua il plico destinato alla Procura nazionale su richiesta dell`aggiunto Donadio, che insiste nell`indicare come «l`enigmista occulto» responsabile della sua scelta di scappare.
Le riprese non divulgate chiamerebbero in causa il capo scorta Di Meo, un agente di nome Gabriele, il colonnello indicato come Fabrizio e il tenente Sanpaolesi. Fa ironia, Lo Giudice: «Si sono perse per strada queste cose». E minaccia: «Quella era soltanto una copia, io detengo l`originale e tante altre registrazioni effettuate durante la mia collaborazione». Collaborazione che, ribadisce più volte, avrebbe avuto due fasi. Lo dice direttamente rivolgendosi a Cisterna: «Nei primi 180 giorni non ho inventato niente. Poi…».
Ma anche su questo Lo Giudice è ambiguo, perché nel suo nuovo memoriale nega di essere stato lui a collocare la bomba contro la casa del procuratore generale, anzi indica un alibi e le persone che potrebbero confermarlo.
E tuttavia quello che avrebbe messo a serio rischio la sua vita non verrebbe fuori dalla collaborazione sulle vicende reggine ma da quelle legate a Palermo. Dice, Lo Giudice, che gli volevano far dire cose e fare nomi che lo hanno lasciato «a bocca aperta». Adombrando che in quel contesto ha anche avuto esplicite minacce di morte. A questo dice di collegare due tentativi di ucciderlo mentre era a Macerata. Parla di due persone che hanno tentato di entrare in casa spacciandosi per uomini del Servizio centrale di protezione. E manda altri messaggi promettendo il suo silenzio in cambio dell`oblio: «Qualcuno deve avere pensato di risolvere le cose in un certo modo, lo consiglio di lasciare stare che è conveniente per tutti. State certi che mi difenderò. Non mi cercate che non vi cercherò». (0080)

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