«`Ndrangheta e Chiesa camminano per mano»
“Dio proteggi me e questo bunker” è la scritta che, tra un santino di padre Pio e un bassorilievo raffigurante il volto di Cristo, i carabinieri del Ros hanno scovato nel rifugio del boss Gregorio Be…

“Dio proteggi me e questo bunker” è la scritta che, tra un santino di padre Pio e un bassorilievo raffigurante il volto di Cristo, i carabinieri del Ros hanno scovato nel rifugio del boss Gregorio Bellocco. E da questa immagine parte l’intervista di Beatrice Borromeo a Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, pubblicata stamattina da “Il Fatto quotidiano”. Un duro atto di accusa del magistrato a certe ambiguità della Chiesa, ma anche l’attenzione di Gratteri per il percorso di pulizia che Papa Bergoglio sta facendo nella Santa Sede.
«Faccio il magistrato da 26 anni – spiega Gratteri – e non trovo covo dove manchi un’immagine della Madonna di Polsi o di San Michele Arcangelo. Non c’è rito di affiliazione che non richiami la religione. ’Ndrangheta e Chiesa camminano per mano…», aggiunge il procuratore aggiunto, anche se mostra ottimismo e assicura che «le cose stanno cambiando».
«Questo Papa è sulla strada giusta. Ha da subito lanciato segnali importanti: indossa il crocifisso in ferro, rema contro il lusso. È coerente, credibile. E punta a fare pulizia totale», prosegue Gratteri, che alla domanda se la mafia sia preoccupata da questi comportamenti, dice: «Quella finanziaria sì, eccome. Chi finora si è nutrito del potere e della ricchezza che derivano direttamente dalla Chiesa, è nervoso, agitato. Papa Bergoglio sta smontando centri di potere economico in Vaticano. Se i boss potessero fargli uno sgambetto non esiterebbero».
La Borromeo chiede se, in virtù di queste prese di posizione, il Papa sia a rischio, e Gratteri risponde: «Non so se la criminalità organizzata sia nella condizione di fare qualcosa, ma di certo ci sta riflettendo. Può essere pericoloso».
Ma è quando si parla del comportamento del clero calabrese che l’analisi di Gratteri diventa impietosa. E per spiegare le sue perplessità il magistrato si affida a due esempi: «Il vescovo di Reggio Calabria, anche dopo la condanna in Cassazione di un capobastone, ha detto che non poteva schierarsi perché magari si trattava di un errore giudiziario. Il vescovo di Locri ha sì scomunicato i mafiosi, ma solo dopo che avevano danneggiato le piantine di frutti di bosco della comunità ecclesiastica di Platì. Solo che prima di quell’episodio, i boss avevano ammazzato migliaia di persone. Bisogna aspettare le piantine perché i prelati si sveglino?».
Ma non basta, Gratteri ricorda ancora un caso clamoroso: «Qualche anno fa la figlia di Condello il Supremo si è sposata nel duomo di Reggio Calabria. E’ arrivata pure la benedizione papale. A Roma potevano non conoscere il clan, ma in Calabria tutti sanno chi sono i Condello. Eppure nessuno ha fiatato. I preti, poi, vanno di continuo a casa dei boss a bere il caffè, regalando loro forza e legittimazione popolare».
Un atto di accusa durissimo, visto il significato che per le cosche ha il controllo del territorio: la legittimazione del rappresentante locale della Chiesa diventa un formidabile strumento di condizionamento ambientale: «Alcuni dicono che frequentano i mafiosi perché devono redimere – spiega Gratteri – Capirei se la Chiesa accogliesse chi si pente davvero, ma così è troppo facile: continui a uccidere, a importare cocaina, a tenere soggiogata la gente e io, prete, ti do pure una mano».