Il tabù dell`antimafia
Quando crollano, i tabù fanno rumore, molto rumore. Questa volta è crollato il tabù dell’antimafia della società civile. Creato e alimentato da stampa e televisione, utile, utilissimo, per rapide e i…

Quando crollano, i tabù fanno rumore, molto rumore. Questa volta è crollato il tabù dell’antimafia della società civile. Creato e alimentato da stampa e televisione, utile, utilissimo, per rapide e inopinate fortune, ma da un pò di tempo traballante e incerto. Il crollo era nell’aria e questo giornale, occorre riconoscerlo, lo ha certamente preparato, nel suo piccolo, segnalando più volte incongruenze, debolezze, strumentalizzazioni di movimenti che sotto la larga e generosa coperta dell’impegno antimafia, perseguivano interessi personali di vario genere, da quelli economici a quelli politici. Di recente, nell’ultimo dei miei contributi, avevo accostato il tema dell’Antimafia istituzionale a quello dell’antimafia espressione della società civile, per rilevarne comuni criticità e contraddizioni. Subito dopo si è aperta, su importanti testate nazionali, una discussione, per la prima volta impietosa, circa la natura, la funzione, il senso complessivo dell’antimafia della società civile, dei suoi tanti volti, della sua decadenza, di cui sono espressione, certamente non causa, le recenti vicende giudiziarie che hanno riguardato due donne, “impegnate”, l’una a livello istituzionale, come sindaco di un comune ad alta densità mafiosa, l’altra a livello culturale e sociale. Si prescinde in questa sede dalle accuse che gli uffici di Procura hanno mosso e che hanno determinato l’adozione di misure restrittive della libertà personale, per avviare invece una riflessione più complessiva sul fenomeno dei movimenti antimafia e sulla crisi nella quale versano e non da poco, crisi che è facile presagire irreversibile, almeno per buona parte di essi. Già nel settembre 2012, su Cosa Grigia, Giacomo Di Girolamo dedicava un intero capitolo, dal titolo “L’umore grigio dell’antimafia”, proprio a questo tema con notazioni di grande interesse, che rompevano, forse la prima volta, le chiassose, elogiative e sperticate lodi che il mondo della comunicazione, della politica, e delle istituzioni, dedicava, senza distinzioni, ad ogni movimento grande o piccolo che si autodefinisse “antimafia”. È utile rilevare che, se anche la contestazione riguarda i movimenti antimafia nel loro complesso, è alla Calabria che sono rivolti gli sguardi, dal momento che le smagliature maggiori si sono verificate in questa sfortunata regione, a riprova del degrado che la sommerge ogni giorno di più. Facciamo dunque un tentativo per cercare di comprendere le cause dello sgretolamento progressivo dell’antimafia calabrese, che aveva avuto il suo momento più alto subito dopo l’omicidio di Francesco Fortugno, nell’ottobre del 2005, per poi abbandonare le spinte ideali che l’avevano caratterizzata all’inizio, (almeno così si pensava) per avviarsi assai rapidamente verso derive di subordinazione a logiche politiche, a ricerca di benefici economici e personali, utilizzando a tali fini, la grande attenzione mediatica che la circondava e qualche volta la strumentalizzava cinicamente. Al di là dei comportamenti personali, che pure hanno avuto un peso determinante nel triste epilogo di fine anno (sotto questo riguardo le vicende di Carolina Girasole e di Rosy Canale sono illuminanti), vi sono motivi strutturali che, pur riguardando l’intero territorio nazionale, sono anch’essi di maggior rilievo in Calabria. I movimenti antimafia di cui si parla oggi sono quelli nati dopo le stragi del 1992-93. Prima ce n’erano stati in Sicilia, soprattutto, ma erano una cosa diversa da quelli dell’ultimo ventennio. Intendevano contrastare le mafie così come si erano manifestate per decenni e come erano viste e vissute nell’immaginario popolare: le mafie dei sequestri, delle cruenti guerre interne, dei brutali omicidi e dell’uccisione di magistrati, politici, imprenditori, giornalisti che si opponevano ai loro disegni. Per anni, da tutta Italia intere scolaresche si recarono, guidate dai loro migliori insegnanti, nelle “terre di mafia”, a Corleone, Alcamo, nei quartieri più tristemente noti di Palermo (Brancaccio, Zen, Oreto, eccetera) per vedere i luoghi degli episodi più eclatanti della presenza mafiosa. In Calabria il luogo prediletto fu San Luca, quindi Rosarno, e altri ancora. Nel corso degli anni, poi, i lusinghieri risultati processuali, ma più ancora, le misure cautelari, le misure patrimoniali di sequestro e confisca, le catture dei latitanti, le dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia, avevano creato il convincimento (non sempre in buona fede) che la “lotta” alla mafia si fosse avviata verso esiti di vittoria irreversibile e del correlato tracollo di Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra. Qualcuno ne aveva fatto oggetto di un imprudente comunicato ufficiale. Da qui, una sorta di trionfalismo appena dissimulato; un’attività frenetica di cerimonie di premiazione (proprio così) agli eroi di questa battaglia, ormai prossima alla conclusione, magistrati, poliziotti e giornalisti, compresi quelli appena arrivati e prima ancora di verificarne capacità e impegno, una sorta di cooptazione preventiva nella squadra dell’antimafia militante. Nel corso di tali cerimonie, organizzate in tutto il Paese, con i più vari pretesti, con grande e ben programmato clamore mediatico, si assisteva alla lettura dei bollettini della vittoria (la frase più ricorrente era di mafie «sgominate»). Gli interventi erano tutto un incrocio di elogi, di rallegramenti, di reciproca incensazione, al quale, purtroppo, pochissime, da parte della politica e della stampa, sono state le voci di dissenso, per il metodo e per i contenuti che venivano diffusi. Presto politici di lungo corso, anche quelli interessati direttamente da indagini, da collegamenti a rischio, da dichiarati benefici elettorali, capirono che quelle occasioni non potevano essere trascurate. Farsi vedere insieme ai magistrati, ai questori, ai giornalisti più accreditati, sullo stesso palco, intorno a uno stesso tavolo, era un formidabile mezzo di legittimazione e di precostituzione di titoli “antimafia”, da spendere all’occorrenza. In questa festa continua, di viaggi su treni e navi della legalità, si possono riconoscere molti buoni propositi, molti eccessi in buona fede, ma nello stesso tempo molte mistificazioni, come quelle sui nomi di Falcone e Borsellino, i cui nomi vengono usati in maniera decontestualizzata, come se fossero eroi dell’antichità, da inserire nei libri di storia. Si è addirittura arrivati a trasformare i nemici di Falcone negli eredi di Falcone, operazioni giudiziarie del tutto ordinarie, per quanto positive, in svolte epocali nella comprensione e nel contrasto dei fenomeni mafiosi. Mentre si consumavano sempre più stancamente questi riti, avveniva che le mafie da “lottare”, nel frattempo si erano trasformate, erano divenute altra cosa, quella “Cosa grigia”, di cui non si distinguono più i contorni, nella quale la confusione dei ruoli è la caratteristica principale. Non più vecchi padrini, con le mani macchiate di sangue, ma distinti uomini d’affari, presenti in tutte le piazze finanziarie internazionali, nella politica, e con ruoli non certo secondari, nelle logge massoniche, nelle anticamere dei ministeri, nei consigli comunali e regionali, nei consigli di amministrazione delle società partecipate. Un tale mutamento ha messo definitivamente in crisi sia i baldanzosi bollettini di vittoria, sui quali tuttavia si sono costruite carriere giudiziarie e amministrative, sia la possibilità di individuare un “nemico” visibile e lontano. È assai difficile organizzare una marcia della legalità sia a Buccinasco che a Corleone, sia a piazza degli Affari che a San Luca. Divenne così possibile che i movimenti antimafia fossero piegati a logiche clientelari, mediante l’uso spregiudicato di generosi finanziamenti, cooptazioni politiche. Ho già detto che il certificato di scioglimento porta la data di settembre 2012, con la firma dei movimenti antimafia sul famoso manifesto contro l’ipotesi di scioglimento del Comune di Reggio Calabria per infiltrazioni mafiose. E da allora nessu
no di loro ebbe più nulla da dire; si salvarono, pur tra imbarazzanti contraddizioni, le cooperative create da Libera per la gestione dei terreni confiscati ai mafiosi o presunti tali. Non sono personalmente d’accordo nell’accomunare in un giudizio negativo le presenze di operatori della giustizia o dei corpi di polizia nelle scuole per parlare agli studenti dei valori costituzionali della legalità e del pericolo rappresentato per la nostra democrazia dalla presenza delle mafie. Ad una condizione: che si tratti iniziative che giovino agli studenti e non a chi le tiene. Se infatti accade che della presenza di questo o quel magistrato in una determinata scuola d’Italia, un diligente ufficio stampa provveda a darne informazione alla stampa il giorno prima e poi, darne ampio resoconto il giorno dopo, allora qualche sospetto di personalismi appare legittimo. Il dibattito si è aperto, ma l’interesse, dopo la fiammata iniziale, è destinato scemare, in un momento nel quale la prevalenza dell’interesse nazionale è tutto rivolto ai temi dello sviluppo, della crescita dell’occupazione, del lavoro. Sulla giustizia, si parla molto di una (ulteriore) riforma del processo civile e ben venga se abbrevierà la sua durata, soprattutto in grado di Appello. Molto meno, si parla del diritto e della procedura penale. Si ipotizza la reintroduzione del patteggiamento in Appello, sempre a fini di velocizzare i tempi dei processi, dimenticando che era stato abrogato a furor di popolo, per i guasti che aveva provocato, sommando i benefici dei riti abbreviati già goduti in primo grado, con gli ulteriori benefici derivanti dal patteggiamento in secondo grado. L’unica a non essere modificata è la prescrizione, assente nella maggior parte dei Paesi occidentali (non parliamo degli altri). Se poi dovessero aggiungersi amnistia e indulto, allora il rischio è di rendere processo e sentenze inutili esercitazioni accademiche virtuali, prive di efficacia deterrente e punitiva. (0050)
*magistrato