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«Lo Giudice, ritrattazione poco credibile»
REGGIO CALABRIA «La Corte ritiene che la ritrattazione contenuta in detto memoriale non sia assolutamente in grado di scalfire l’attendibilità delle dichiarazioni del Lo Giudice». Sono netti i giudic…
Pubblicato il: 30/01/2014 – 19:52
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REGGIO CALABRIA «La Corte ritiene che la ritrattazione contenuta in detto memoriale non sia assolutamente in grado di scalfire l’attendibilità delle dichiarazioni del Lo Giudice». Sono netti i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria nel valutare il primo memoriale che l’ex collaboratore Nino Lo Giudice si era lasciato alle spalle, all’indomani dalla sua fuga dal sito protetto, e che su richiesta dei legali era stato acquisito agli atti del procedimento d’Appello con rito abbreviato, che ha visto alla sbarra non solo l’ex pentito, ma anche il cugino, Consolato Villani, insieme a fiancheggiatori e sodali del clan.
Una ritrattazione scottante ma «poco credibile»
Un documento scottante, con cui Lo Giudice non solo aveva ritrattato tutto quanto detto in precedenza, ma aveva anche accusato i magistrati che all’epoca lo gestivano – l’allora procuratore capo, Giuseppe Pignatone, il suo aggiunto Michele Prestipino e la sostituto Beatrice Ronchi – di averne condizionato la collaborazione, inducendolo ad «accusare innocenti». Ma soprattutto, un documento che smentiva rotondamente alcune delle accuse rivolte agli imputati del procedimento abbreviato, fra cui l’illecito possesso di armi. «Le armi acquistate in Austria (e che la Ronchi mi informò che forse mi stavo sbagliando sulla provenienza, suggerendomi che tali armi erano state acquistate a Reggio Emilia) – sottolineava il Nano in quelle carte – all’acquisto di tali armi non era presente mio fratello Luciano, né servivano a me, ma erano armi detenute legalmente come ho sempre detto, l’unico proprietario era Antonio Cortese perché era appassionato di caccia».
Affermazioni che però per la presidente Iside Russo e i consiglieri Francesco Petrone e Massimo Gullino – che hanno scritto la sentenza prima che il Nano venisse riacciuffato – non hanno alcun peso per «molteplici ragioni». Fra tutti, a rendere «poco credibile la ritrattazione» dell’ex collaboratore sono in primo luogo i «motivi e dalle circostanze dell’improvvisa sparizione (…) al momento della presente pronuncia del tutto oscuri». Alla Corte, si legge nelle motivazioni della sentenza, non è infatti dato sapere dato sapere se la sparizione del Nano «sia dipesa da una scelta volontaria, indotta o forzata, né quali siano state le reali motivazioni». Inoltre, «il tenore complessivo del memoriale non può non suscitare forti perplessità sulla sincerità di quella ritrattazione, stante la presenza di intrinseche incongruenze e lacune».
Incongruenze e lacune nel memoriale del Nano
Nel memoriale – si sottolinea – infatti «non viene per nulla spiegato per quali ragioni gli inquirenti avrebbero dovuto indurre il collaboratore ad accusare persone innocenti e specificamente, quelle persone che lui prima aveva chiamato in causa», così come «piuttosto generico» è a detta della Corte l’esasperato «sentimento di vendetta e invidia nei confronti di familiari e amici» che avrebbe indotto il Nano a formulare false accuse nei loro confronti. Ancor più evidenti sono, a detta dei giudici, le contraddizioni in cui l’ex collaboratore sarebbe incappato nel ritrattare quanto detto in precedenza, soprattutto in relazione all’esistenza di un clan Lo Giudice. Un dato affermato da una sentenza del ’93 già passata in giudicato, che già allora ne indicava Nino Lo Giudice come capo dell’omonima consorteria, ma che il Nano tenta invano di smentire.
Pur proclamandosi estraneo a logiche criminali – evidenzia la Corte – non solo «afferma di essersi voluto vendicare di personaggi del calibro di Condello, Tegano e De Stefano, perché li considerava i responsabili dell’omicidio del padre, che evidentemente non doveva essere un quisque de populo nell’ambiente della `ndrangheta se lo stesso collaboratore è arrivato a ipotizzare che per la sua eliminazione si fosse scomodato il gotha della criminalità organizzata reggina», ma soprattutto «non esita a riferire di aver ricevuto dall’altro collaboratore Consolato Villani (guarda caso diventato improvvisamente l’unico criminale con cui egli abbia avuto a che fare) le rivelazioni su un duplice omicidio ai danni di rappresentanti delle forze dell’ordine e su un altro assassinio, notizie che sicuramente non rientrano nel mero pettegolezzo da cortile o nel gossip di cui si legge nelle riviste specializzate, ma possono essere solo il frutto di una comune, collaudata militanza criminale, tale da giustificare le confidenze su fatti di tale gravità».
Inquirenti e indagini
Uno stringato passaggio i giudici lo dedicano infine agli inquirenti accusati da Lo Giudice di averne condizionato la collaborazione. Senza entrare nel merito di quanto riferito dall’ex collaboratore nel memoriale, la Corte spiega che «le persone da lui accusate di avere esercitato pressioni per costringerlo ad accusare persone innocenti sono rappresentanti delle istituzioni della cui correttezza non vi è ragione di dubitare». D’altra parte la ritrattazione del collaboratore, per la Corte d’appello reggina «entra in stridente contraddizione con il contenuto prudente e puntuale di quelle accuse e con gli specifici e concreti riscontri che esse hanno ottenuto in esito alle indagini». Tutte osservazioni che hanno indotto i giudici a ritenere «che vada sicuramente confermata l’attendibilità delle accuse rivolte da Antonio Lo Giudice nei confronti degli odierni imputati».
Sono queste in estrema sintesi le motivazioni che hanno indotto i giudici della Corte d’appello reggina a emettere una sentenza che se da una parte ha stravolto le decisioni del procedimento di primo grado istruito anche grazie alle rivelazioni di Lo Giudice, stabilendo sostanziali riduzioni di pena per tutti gli imputati e la clamorosa assoluzione di Consolato Romolo, dall’altra ha riconosciuto lo sconto di pena riservato ai collaboratori a Nino Lo Giudice e Consolato Villani, affermandone dunque l’attendibilità.
Una sentenza superata dagli eventi?
Una pronuncia che però risente del momento storico in cui quel dispositivo è stato emesso. All’epoca – era il 30 ottobre 2013 – l’ex collaboratore era ancora in fuga, ricercato attivamente da investigatori ed inquirenti. Solo quindici giorni dopo sarebbe stato catturato alla periferia nord di Reggio Calabria e immediatamente sottoposto a un serrato interrogatorio dagli inquirenti della Procura reggina e catanzarese che da mesi gli davano la caccia. In una delle stanze della Questura, di fronte ai procuratori della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, e di Catanzaro, Vincenzo Lombardo, all’aggiunto Ottavio Sferlazza, e ai sostituti Giuseppe Lombardo, Giovanni Musaro?, Antonio De Bernardo e Gerardo Dominijanni, il Nano ha iniziato a chiarire i motivi che lo hanno indotto ad abbandonare il luogo protetto e darsi alla latitanza, confermando quanto sul punto aveva gia? anticipato nei due memoriali con cui aveva rotto quel silenzio di cinque mesi. Due scritti di cui ha rivendicato la paternita? e che avrebbe redatto in momenti diversi, ma comunque da solo e senza alcuna assistenza. Allo stesso modo, da solo e senza allertare nessuno si sarebbe allontanato dal luogo protetto.
Una ricostruzione zoppicante, confusa che sembra non aver convinto gli inquirenti, che però proprio in chiusura dell’interrogatorio dal Nano ottengono una fondamentale informazione. Rispondendo a una domanda del sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, Nino Lo Giudice ammette candidamente: «Quando ho reso dichiarazioni alcune cose a mia conoscenza non le ho riferite». «Lei ha riferito i fatti.. tutti?», lo incalza il procuratore capo della Dda, Federico Cafiero de Raho, cui Lo Giudice risponde chiaramente: «No, no». Un no su cui molte difese sono pronte a fare leva per ribaltare le sentenze fino ad oggi emesse sulla base delle rivelazioni del Nano. Un no che solo il Nano potrebbe spiegare. Ma – almeno per adesso – in pubblica udienza, l’ex collaboratore ha scelto il silenzio.]] >
Una ritrattazione scottante ma «poco credibile»
Un documento scottante, con cui Lo Giudice non solo aveva ritrattato tutto quanto detto in precedenza, ma aveva anche accusato i magistrati che all’epoca lo gestivano – l’allora procuratore capo, Giuseppe Pignatone, il suo aggiunto Michele Prestipino e la sostituto Beatrice Ronchi – di averne condizionato la collaborazione, inducendolo ad «accusare innocenti». Ma soprattutto, un documento che smentiva rotondamente alcune delle accuse rivolte agli imputati del procedimento abbreviato, fra cui l’illecito possesso di armi. «Le armi acquistate in Austria (e che la Ronchi mi informò che forse mi stavo sbagliando sulla provenienza, suggerendomi che tali armi erano state acquistate a Reggio Emilia) – sottolineava il Nano in quelle carte – all’acquisto di tali armi non era presente mio fratello Luciano, né servivano a me, ma erano armi detenute legalmente come ho sempre detto, l’unico proprietario era Antonio Cortese perché era appassionato di caccia».
Affermazioni che però per la presidente Iside Russo e i consiglieri Francesco Petrone e Massimo Gullino – che hanno scritto la sentenza prima che il Nano venisse riacciuffato – non hanno alcun peso per «molteplici ragioni». Fra tutti, a rendere «poco credibile la ritrattazione» dell’ex collaboratore sono in primo luogo i «motivi e dalle circostanze dell’improvvisa sparizione (…) al momento della presente pronuncia del tutto oscuri». Alla Corte, si legge nelle motivazioni della sentenza, non è infatti dato sapere dato sapere se la sparizione del Nano «sia dipesa da una scelta volontaria, indotta o forzata, né quali siano state le reali motivazioni». Inoltre, «il tenore complessivo del memoriale non può non suscitare forti perplessità sulla sincerità di quella ritrattazione, stante la presenza di intrinseche incongruenze e lacune».
Incongruenze e lacune nel memoriale del Nano
Nel memoriale – si sottolinea – infatti «non viene per nulla spiegato per quali ragioni gli inquirenti avrebbero dovuto indurre il collaboratore ad accusare persone innocenti e specificamente, quelle persone che lui prima aveva chiamato in causa», così come «piuttosto generico» è a detta della Corte l’esasperato «sentimento di vendetta e invidia nei confronti di familiari e amici» che avrebbe indotto il Nano a formulare false accuse nei loro confronti. Ancor più evidenti sono, a detta dei giudici, le contraddizioni in cui l’ex collaboratore sarebbe incappato nel ritrattare quanto detto in precedenza, soprattutto in relazione all’esistenza di un clan Lo Giudice. Un dato affermato da una sentenza del ’93 già passata in giudicato, che già allora ne indicava Nino Lo Giudice come capo dell’omonima consorteria, ma che il Nano tenta invano di smentire.
Pur proclamandosi estraneo a logiche criminali – evidenzia la Corte – non solo «afferma di essersi voluto vendicare di personaggi del calibro di Condello, Tegano e De Stefano, perché li considerava i responsabili dell’omicidio del padre, che evidentemente non doveva essere un quisque de populo nell’ambiente della `ndrangheta se lo stesso collaboratore è arrivato a ipotizzare che per la sua eliminazione si fosse scomodato il gotha della criminalità organizzata reggina», ma soprattutto «non esita a riferire di aver ricevuto dall’altro collaboratore Consolato Villani (guarda caso diventato improvvisamente l’unico criminale con cui egli abbia avuto a che fare) le rivelazioni su un duplice omicidio ai danni di rappresentanti delle forze dell’ordine e su un altro assassinio, notizie che sicuramente non rientrano nel mero pettegolezzo da cortile o nel gossip di cui si legge nelle riviste specializzate, ma possono essere solo il frutto di una comune, collaudata militanza criminale, tale da giustificare le confidenze su fatti di tale gravità».
Inquirenti e indagini
Uno stringato passaggio i giudici lo dedicano infine agli inquirenti accusati da Lo Giudice di averne condizionato la collaborazione. Senza entrare nel merito di quanto riferito dall’ex collaboratore nel memoriale, la Corte spiega che «le persone da lui accusate di avere esercitato pressioni per costringerlo ad accusare persone innocenti sono rappresentanti delle istituzioni della cui correttezza non vi è ragione di dubitare». D’altra parte la ritrattazione del collaboratore, per la Corte d’appello reggina «entra in stridente contraddizione con il contenuto prudente e puntuale di quelle accuse e con gli specifici e concreti riscontri che esse hanno ottenuto in esito alle indagini». Tutte osservazioni che hanno indotto i giudici a ritenere «che vada sicuramente confermata l’attendibilità delle accuse rivolte da Antonio Lo Giudice nei confronti degli odierni imputati».
Sono queste in estrema sintesi le motivazioni che hanno indotto i giudici della Corte d’appello reggina a emettere una sentenza che se da una parte ha stravolto le decisioni del procedimento di primo grado istruito anche grazie alle rivelazioni di Lo Giudice, stabilendo sostanziali riduzioni di pena per tutti gli imputati e la clamorosa assoluzione di Consolato Romolo, dall’altra ha riconosciuto lo sconto di pena riservato ai collaboratori a Nino Lo Giudice e Consolato Villani, affermandone dunque l’attendibilità.
Una sentenza superata dagli eventi?
Una pronuncia che però risente del momento storico in cui quel dispositivo è stato emesso. All’epoca – era il 30 ottobre 2013 – l’ex collaboratore era ancora in fuga, ricercato attivamente da investigatori ed inquirenti. Solo quindici giorni dopo sarebbe stato catturato alla periferia nord di Reggio Calabria e immediatamente sottoposto a un serrato interrogatorio dagli inquirenti della Procura reggina e catanzarese che da mesi gli davano la caccia. In una delle stanze della Questura, di fronte ai procuratori della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, e di Catanzaro, Vincenzo Lombardo, all’aggiunto Ottavio Sferlazza, e ai sostituti Giuseppe Lombardo, Giovanni Musaro?, Antonio De Bernardo e Gerardo Dominijanni, il Nano ha iniziato a chiarire i motivi che lo hanno indotto ad abbandonare il luogo protetto e darsi alla latitanza, confermando quanto sul punto aveva gia? anticipato nei due memoriali con cui aveva rotto quel silenzio di cinque mesi. Due scritti di cui ha rivendicato la paternita? e che avrebbe redatto in momenti diversi, ma comunque da solo e senza alcuna assistenza. Allo stesso modo, da solo e senza allertare nessuno si sarebbe allontanato dal luogo protetto.
Una ricostruzione zoppicante, confusa che sembra non aver convinto gli inquirenti, che però proprio in chiusura dell’interrogatorio dal Nano ottengono una fondamentale informazione. Rispondendo a una domanda del sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, Nino Lo Giudice ammette candidamente: «Quando ho reso dichiarazioni alcune cose a mia conoscenza non le ho riferite». «Lei ha riferito i fatti.. tutti?», lo incalza il procuratore capo della Dda, Federico Cafiero de Raho, cui Lo Giudice risponde chiaramente: «No, no». Un no su cui molte difese sono pronte a fare leva per ribaltare le sentenze fino ad oggi emesse sulla base delle rivelazioni del Nano. Un no che solo il Nano potrebbe spiegare. Ma – almeno per adesso – in pubblica udienza, l’ex collaboratore ha scelto il silenzio.]] >
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