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Videopoker, ecco il “sistema Campolo”

REGGIO CALABRIA Commutazione: è questa la parola magica, o meglio l’operazione che per i pm ha consentito all’imprenditore Gioacchino Campolo di costruire una fortuna sui videogiochi. Macchine appare…

Pubblicato il: 03/02/2014 – 23:01
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Videopoker, ecco il “sistema Campolo”

REGGIO CALABRIA Commutazione: è questa la parola magica, o meglio l’operazione che per i pm ha consentito all’imprenditore Gioacchino Campolo di costruire una fortuna sui videogiochi. Macchine apparentemente uguali in tutto e per tutto a quelle diffuse in ogni sala d’Italia e del mondo ma che a richiesta si trasformavano in slot mangiasoldi, totalmente sconosciute al Monopolio e allo Stato, assolutamente illegali, capaci nel giro di mezz’ora di fagocitare centinaia e centinaia di euro. Ovviamente esentasse.
È questo il sistema che oggi, di fronte al Tribunale presieduto dal giudice Natina Praticò, è stato ricostruito – fra ammissioni e reticenze – dai gestori delle tante sale giochi riconducibili a Campolo, il cosiddetto re dei videopoker già condannato in via definitiva a sedici anni per estorsione. Costretti a turni di otto ore sette giorni su sette, malpagati nonostante la busta paga fosse decisamente superiore a quanto in realtà percepito, spesso obbligati a lavorare a nero, è solo fra mille reticenze, tanti “non ricordo” e altrettanti “non saprei” che i gestori che si sono avvicendati di fronte al Tribunale presieduto da Natina Praticò hanno raccontato di quei giochi che solo su richiesta degli avventori apparivano su alcune macchine. “Alcuni giochi come Alice, Ice-escape, Neogeo venivano commutati – dice Massimo Antonio Mazza, uno dei lavoratori chiamati oggi a testimoniare – nel senso che nella stessa macchinetta c’erano diverse tipologie di gioco che a richiesta veniva cambiato”. Ad occuparsi dell’operazione, come del pagamento delle poche vincite che venivano realizzate – affermano concordi i gestori oggi chiamati a testimoniare – sarebbero stati i “tecnici”. “Quando c’era necessità di cambiare il gioco o di pagare una vincita chiamavo in ufficio. Scendeva il tecnico e cambiava il gioco, ma io – spiega Cosimo Teli rispondendo alle domande del pm Rosario Ferracane – non assistevo all’operazione, non mi interessava, spesso leggevo anche il giornale”. Allo stesso modo, funzionava per le vincite. “Qualunque intervento riguardante la macchina – aggiunge – sia in caso di vincite, sia per cambiare gioco, venivano chiamati i tecnici”. Una versione comune a tutti i testimoni ma che non convince per nulla le difese, che sul punto centrano tutte le proprie domande. E proprio all’ultimo testimone, Giuseppe Alessandro Verduci , i legali riescono a strappare una parziale ammissione. Confermando quanto in passato dichiarato in sede di interrogatorio – il cui verbale è stato acquisito agli atti del procedimento su istanza dell’avvocato Giovanni De Stefano – Verduci afferma che toccava a loro verificare la vincita e pagare l’avventore. Un’ammissione che forse potrebbero essere problematica per quei soggetti – come i gestori delle sale giochi – le cui posizioni sono state archiviate su richiesta della Procura nell’ottobre scorso, ma non modificano in assoluto la gravità del compendio probatorio a carico di Campolo.
Considerato imprenditore “a disposizione” di diversi clan cittadini, Gioacchino Campolo è balzato agli onori delle cronache quando la guardia di finanza si è presentata per mettere i sigilli al suo patrimonio. Un sequestro – poi diventato confisca – del valore di oltre 300 milioni di euro. In mano allo Stato sono passati il patrimonio aziendale e i relativi beni di 4 imprese, 256 immobili – 74 abitazioni, 126 locali commerciali, 56 terreni – sparsi tra Reggio Calabria e provincia, Roma, Milano, Taormina e Parigi, 3 veicoli commerciali, 6 autovetture di lusso, 5 motocicli, 27 rapporti bancari, postali, assicurativi, azioni, individuati in Italia e in territorio francese, ma soprattutto più di cento quadri tra i quali molti di rilevantissimo pregio artistico.
Sebbene Campolo debba la sua “fama” al clamore provocato del sequestro, anche prima di conquistare le copertine di giornali e periodici era persona nota. O almeno lo era per inquirenti e investigatori che per anni hanno seguito l’evoluzione dei suoi rapporti con le cosche cittadine. «Dopo la pax mafiosa – si legge nel provvedimento di confisca che riassume anni e anni di indagini e procedimenti a carico del noto imprenditore – si era avvicinato anche alle famiglie Libri/Zindato e manteneva rapporti con esponenti della cosca Condello-Serraino-Imerti-Rosmini e Nicolò, in specie il capo locale di Gallico, Iannò Paolo, al quale ,aveva attrezzato un circolo con giochi legali e illegali prima del’95». Per i giudici, quello fra Campolo e i clan non è un rapporto di «soggezione subordinazione di Campolo – imprenditore ai vari reggenti delle cosche dominanti sul territorio per la mera sopravvivenza della ditta Are, ma un evidente rapporto paritario finalizzato alla pianificazione e conclusione degli affari e guadagni illeciti». Ma – chiariscono le indagini a carico dell’imprenditore – sebbene fosse in ottimi rapporti con tutti, il clan che su di lui ha da sempre steso un’ala protettrice sarebbe quello dei De Stefano.
A confermare gli elementi sulla contiguità di Campolo alla potente cosca di Archi che gli investigatori hanno collezionato nel corso di una lunga indagine, sono le dichiarazioni di quattro collaboratori di giustizia Paolo Iannò, killer della cosca Condello, Antonino Fiume e Giovanni Battista Fracapane, killer ed esponenti di spicco del clan De Stefano e più recentemente l’ex collaboratore Nino Lo Giudice. «Lo sapevo che Campolo gode di una certa “protettura” da molte famiglie e che aveva una “amicizia” diretta o indiretta, con l’avvocato Giorgio De Stefano. Anche se il “responsabile” su di lui era Orazio», dirà il pentito Nino Fiume ai magistrati della Dda di Reggio Calabria. Sarà quest’ultimo – come riferito, sottolineano i magistrati, «in modo estremamente chiaro e lineare» dal pentito Fracapane – a bloccare Mario Audino e i suoi propositi omicidi ai danni di Campolo, ma anche ad ordinare che fosse la sua Are e non la ditta dei Lavilla, come voluto invece dai Tegano, a ricoprire una posizione di vertice nel mercato degli apparecchi da gioco in Reggio Calabria. (0070)

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