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La "Mamma" piemontese

LAMEZIA TERME In Piemonte esiste «una struttura criminale di stampo mafioso, costituita non semplicemente da una serie di soggetti che qui si sono associati e qui hanno iniziato a delinquere, ma per…

Pubblicato il: 22/02/2014 – 0:11
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La "Mamma" piemontese

LAMEZIA TERME In Piemonte esiste «una struttura criminale di stampo mafioso, costituita non semplicemente da una serie di soggetti che qui si sono associati e qui hanno iniziato a delinquere, ma per contro da persone che hanno “importato” tipologie di reati, linguaggi, riti e doti tipici della terra di origine della ‘ndrangheta ed operato secondo le sue tradizioni, mantenendo legami stabili con organismi di vertice della ‘ndrangheta calabrese». Lo mettono chiaramente nero su bianco i magistrati di Torino che lo scorso 22 novembre hanno inflitto 37 condanne agli imputati del processo Minotauro: la ‘ndrangheta non solo c’è, ma si è anche evoluta radicandosi nel territorio in senso «verticistico e unitario», tanto da riuscire a conciliare «il centralismo delle regole organizzative e dei rituali con il decentramento operativo. Siffatta trasformazione nella continuità  dimostra che l’associazione si è adeguata al mutato contesto sociale, anche in relazione ai territori di espansione, riuscendo a coniugare il rispetto delle ataviche tradizioni e regole con le nuove realtà economico-finanziarie».  Un sottile equilibrio di cui il pentito Varacalli ha parlato in dettaglio con i magistrati, spiegando, «riferendosi alla sua locale di appartenenza, che la necessità di ottenere le autorizzazioni da parte dell’organismo apicale calabrese era limitata agli aspetti strutturali e non anche all’attività da svolgere, tra cui la decisione di commettere specifici delitti ovvero altre condotte rientranti nel programma dell’associazione, nonché all’affiliazione di nuovi adepti. Le decisioni relative a tali questioni dovevano essere semplicemente comunicate in Calabria». Ed autonoma, ma pericolosa tanto quanto la “mamma” è la ‘ndrangheta piemontese. Non a caso, nel tratteggiare le responsabilità di uno dei principali imputati, il “padrino” Salvatore De Masi, «venuto in Piemonte come semplice muratore e diventato titolare di un impero economico», il Tribunale sottolinea infatti che «dimostrative del notevole peso che il De Masi aveva acquisito anche all’interno di ambienti politici appartenenti a diversi schieramenti, le numerose conoscenze e le frequentazioni di cui egli  parla (facendo esplicitamente i nomi di coloro che lo ebbero ad avvicinare) nell’interrogatorio reso al pm il 20 luglio 2011. Dalle sue parole, e in particolare dalle sue asserzioni circa l’essere stato più volte contattato da vari politici affinché li sponsorizzasse o facesse da tramite per organizzare incontri finalizzati a candidature altrui, emerge come fosse il mondo politico a cercarne l’appoggio».
E sono inquietanti i ritratti dei politici coinvolti nel procedimento, a partire dall’ex primo cittadino di Leinì, quel Nevio Coral condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a dieci anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver agito «in dispregio delle regole di correttezza ed onestà che dovrebbero sovraintendere la vita pubblica». Dal dibattimento è emerso chiaramente come «in cambio di appoggio elettorale al suo gruppo, Coral – ricordano i giudici – si sia speso non solo promettendo, ma altresì attribuendo, oltre ad elargizioni di denaro, lavori edilizi in ambito privato ed in ambito pubblico». Ma questo non sarebbe stato l’unico mezzo attraverso cui l’ex sindaco ha beneficiato le `ndrine piemontesi. Più volte, Coral avrebbe infatti elargito «ingenti somme» ad affiliati e uomini a loro vicini «per ottenere voti in occasione di competizioni elettorali», che coinvolgevano lui stesso, i figli Ivan e Claudio e la nuora Caterina Ferrero. Per i giudici, all’ex primo cittadino di Leini non poteva essere «ignota la mafiosità dei numerosi esponenti anche apicali della ‘ndrangheta operante in Piemonte», perché era «amministratore da anni di una piccola realtà locale» e perché «la fama di alcuni individui, quali esponenti della malavita organizzata, era notoria».
Non meno grave, anzi «inquietante», lo definiscono i giudici, è il quadro emerso a carico di Bruno Trunfio, ex assessore ai lavori pubblici del Comune di Chivasso durante la giunta guidata da Andrea Fluttero (Pdl) e vicesegretario dell’Udc del Comune più grande dell’hinterland torinese. Per lui, a conclusione del dibattimento è arrivata una condanna a sette anni di relusione per associazione mafiosa. Trunfio non si limitava ad appoggiare le ‘ndrine o a favorirle. Era uno di loro, affiliato alla locale di Chivasso con il grado di “trequartino”. Non a caso a lui i magistrati sono arrivati ricostruendo l’organigramma della sua locale e non seguendo il filo degli addentellati politici. Ma per i magistrati «al di là dell’assenza di contestazioni in merito e dunque di provati profili di rilevanza penale» rimane inquietante «l’attivismo politico di Bruno Trunfio (su cui copioso è il materiale in atti), indice dell’infiltrazione della ‘ndrangheta in settori nodali della società civile e di quella capacità di mimetismo e di adattamento che rende il fenomeno mafioso di difficile individuazione e repressione».
E nonostante per lui non sia arrivata alcuna condanna, ma “solo” la trasmissione degli atti in Procura per ulteriori approfondimenti sull’ipotesi di reato di voto di scambio, non è di certo edificante l’immagine dell’ex sindaco di Rivarolo Canavese, oggi europarlamentare di Forza Italia, Fabrizio Bertot, tratteggiata dai magistrati in sentenza. Tanto per la pubblica accusa, come per il Tribunale, «ha reso dichiarazioni non veritiere» sull’accordo fatto dal segretario comunale Antonino Battaglia, l’imprenditore Giovanni Macrì e i principali esponenti della ‘ndrangheta torinese.  Bertot ha sempre sostenuto di non sapere nulla al riguardo, ma questo per i magistrati è impossibile perché «fu infatti l’immediato, diretto e consapevole beneficiario dell’accordo illecito», scrivono i giudici che hanno condannato a due anni di reclusione Battaglia e Macrì.  
Tutti soggetti ormai, a vario titolo coinvolti in quella “famiglia”, “società” che «è di tutti, non la mia, non la sua e non di nessuno. (…) la, la, la famiglia è unica». E in Piemonte come in Calabria, schiaccia e distrugge i territori in cui si radica. (0040)

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