Ultimo aggiornamento alle 20:30
Corriere della Calabria - Home

I nostri canali


Si legge in: 10 minuti
Cambia colore:
 

“Archi Astrea”, pesantissime richieste del pm

REGGIO CALABRIA «Ritengo che tutti quanti, tutti quelli qui presenti oggi o che hanno avuto a che fare con questa inchiesta, hanno avuto la sensazione di raccontare una storia particolare, forse un…

Pubblicato il: 16/07/2014 – 14:07
“Archi Astrea”, pesantissime richieste del pm

REGGIO CALABRIA «Ritengo che tutti quanti, tutti quelli qui presenti oggi o che hanno avuto a che fare con questa inchiesta, hanno avuto la sensazione di raccontare una storia particolare, forse una storia che per qualcuno non è mai esista e per qualcun altro ancora non esiste. La storia dell’indagine, quella che poi diventa il processo Archi Astrea, viene svolta a distanza di tempo – a mio modo di vedere una distanza imbarazzante – e riesce a mettere insieme tutta una serie di coincidenze fortunose – dirà qualcuno – tanto fortunose da sembrare l’indagine delle costruzioni fantasiose. È un’indagine che per qualcuno sembra caratterizzata da passaggi irreali, che nell’ipotesi accusatoria diventano invece passaggi fittizi».

 

La decisione della Corte d’appello non influisce sul procedimento

Esordisce con un attacco diretto a dubbi, commenti e illazioni seguiti alla sentenza con cui la Corte d’appello ha ribaltato il pesantissimo esito del primo grado del procedimento con rito abbreviato Archi Astrea, il pm Giuseppe Lombardo che nel tirare le fila della lunga istruttoria dibattimentale del processo con rito ordinario non vuole lasciare spazio ad equivoco alcuno e punta subito su quella che molte difese considerano la leva per scardinare l’impianto accusatorio alla base dell’inchiesta: la posizione di Giuseppe Rechichi. Un rischio che non esiste per il pm non solo alla luce di quanto emerso nel corso della lunga istruttoria dibattimentale, o degli errori materiali contenuti in quella sentenza, se è vero che «in quel dispositivo si richiama a sproposito una norma che in relazione a questo fatto non ha senso. Al contrario – sostiene – proprio in quel dispositivo si riconosce un assunto basilare anche per le successive ricostruzioni e cioè che “Rechichi Giuseppe è un partecipe qualificato della cosca Tegano, (..) stabilmente dedito alla cura degli affari illeciti della predetta cosca di cui è rilevante espressione imprenditoriale nella veste di socio privato di Multiservizi».

 

Una storia sbagliata

Una base che non si può e non si deve ignorare, pena – sottolinea Lombardo – il rischio di «raccontare un’altra storia, la storia cioè dell’imprenditore mafioso a metà, cioè dell’imprenditore che la mattina fa parte della cosca Tegano e si comporta come tale, fin dai tempi in cui con i calzini corti prendeva per mano Roberto Moio – che per sua sfortuna diventa collaboratore di giustizia – per divertirsi in quel rituale, particolarmente allegro, che vede i Mico Libri battezzare questi due ragazzi, in uno scenario che potrebbe essere neorealista ma parlando di Reggio Calabria è meglio definire post-atomico. Quel Rechichi è lo stesso imprenditore che avviata la sua carriera imprenditoriale in quel modo, poi è capace, unico tra le specie umane studiate e conosciute ai giorni nostri che sveste i panni dell’imprenditore appartenente alla ‘ndrangheta, per indossare indumenti puliti, presentabili, con cui è più facile gestire affari di famiglia». Un quadro che per il pm Lombardo pone in maniera prepotente un interrogativo che oggi si ripropone in ogni inchiesta che vada al di là dell’aspetto militare della ‘ndrangheta sul territorio. «Stiamo parlando di sostanza o di apparenza?», chiede alle parti il sostituto della Dda reggina che aggiunge «per Rechichi, forse è meglio parlare di sostanza la mattina e di apparenza il pomeriggio. Però apparenza e sostanza – e si ricava dalla lunga istruttoria dibattimentale – sono due facce dello stesso mondo, sono le componenti necessarie del fenomeno criminale del terzo millennio, che non possiamo guardare con le lenti ingiallite di chi effettuava queste ricostruzioni al nostro posto qualche anno fa, perché quelle lenti ingiallite rischiano di trasformarci tutti in complici di quella che è l’attività principale della ‘ndrangheta: pianificare sofisticate attività di distrazione di massa».

 

Apparenza o sostanza?

Questioni che diventano di straordinaria attualità a Reggio Calabria, «la città in cui nulla è come appare, la culla del 12 quinques, il laboratorio criminale per eccellenza», e che diversi pentiti come Nino Fiume, Consolato Villani, Nino Lo Giudice «con gli strumenti culturali limitati di cui spesso dispongono, forse senza volerlo sono stati in grado di sintetizzare meglio di noi, rivelando – spiega il pm – l’essenza vera del processo Archi Astrea. Questo è il processo in cui la ‘ndrangheta, quella vera, quella che governa, non quella che si diverte, si è nascosta dietro i paraventi, dietro le mezze figure, non perché quelle mezze figure siano figure intermedie o di livello medio basso nella struttura complessiva dell’organizzazione, ma al contrario sono figure di grande caratura criminale, dotate di una particolare collocazione funzionale, ma perché capaci di rimanere in parte in ombra per andare a realizzare tutta una serie di situazioni vantaggiose per l’organizzazione criminale nel suo complesso che ovviamente la figura in piena luce, sotto i riflettori, non è in grado di gestire». Una ‘ndrangheta «che sa aspettare, perché sa che forzare troppo la mano significa rendersi visibili anche agli occhi di investigatori distratti», spiega il sostituto della Dda che colloca quell’istante decisivo nelle circostanze cristallizzate dalla sentenza Testamento. Una pronuncia fondamentale che fotografa un momento cruciale nella storia cittadina: gli accordi fra Domenico Libri, Giuseppe De Stefano, discendente principe di quel casato, Pasquale Condello e l’astro nascente Matteo Alampi per la spartizione delle municipalizzate.

 

Il processo contro la ‘ndrangheta che governa

Una premessa illuminante, che permette di comprendere perché il processo Archi Astrea sia il procedimento in cui «emerge con chiarezza la strategia sofisticata, sottile, adottata, cioè quella strategia della ‘ndrangheta delle mezze figure, mezze buone e mezze cattive, a volte bianche a volte nere, che guardate a distanza diventano grigie, della ‘ndrangheta che entra in società con lo Stato, della ‘ndrangheta che controlla i servizi pubblici, della ‘ndrangheta che interloquisce con la pubblica amministrazione, della ‘ndrangheta che cerca di aggiustare i processi, in poche parole della ‘ndrangheta che governa ampie fasce di territorio nazionale. Questa è la ‘ndrangheta del terzo millennio, questa è la ‘ndrangheta dotata di strategie raffinate, in cui si abbandona l’apparenza di regole e santini e si punta su soggetti che sono possono spogliarsi di una serie di orpelli visibili, di particolari, riconoscibili incrostazioni mafiose, per trasformarsi in imprenditori di successo». E è proprio alla luce di questa premessa, seguita dalla minuziosa, precisa, chirurgica ricostruzione di ogni singola posizione, che si comprendono le pesantissime richieste di pena avanzate dal pm Giuseppe Lombardo per ogni imputato.

 

Le richieste

La più alta arriva per Michele Franco, presunto responsabile per il clan Tegano di Santa Caterina e per questo per il pm da condannare a 22 anni di reclusione e 15mila euro di multa, 18 anni sono stati chiesti invece per Domenico Polimeni, ritenuto elemento di spicco del medesimo clan, mentre è di 16 anni di carcere la pena invocata per Silvio Giuseppe Candido. Sono invece 12 gli anni di carcere invocati per l’anziano boss Giovanni Tegano, considerato la mente e il regista dell’operazione di infiltrazione che avrebbe portato gli arcoti nel cuore della municipalizzata più grande della città, la Multiservizi, mentre è di 10 anni di carcere la pena richiesta per il suo uomo di fiducia, Carmelo Barbaro. Ma pene pesantissime sono state invocate anche per i colletti bianchi che avrebbero reso tecnicamente possibile al clan la colonizzazione della società mista, come pure per coloro che si sarebbero prestati come “teste di legno” per nascondere affari e int
eressi del clan. Nove anni di carcere più 15mila euro di multa sono stati chiesti per Rosario Rechichi, fratello dell’ex direttore operativo di Multiservizi, giudicato in abbreviato e condannato come affiliato ai Tegano. Medesima pena è stata chiesta anche per i fratelli Maurizio e Antonio Lavilla, come per il commercialista Roberto Emo, cognato di Giovanni Zumbo, l’ex talpa dei Servizi sorpresa a soffiare informazioni ai boss e che proprio con lui avrebbe lavorato per nascondere la reale identità del clan dietro una galassia societaria in continua evoluzione. Otto anni più diecimila euro di multa sono stati invocati invece per i fratelli Antonio e Giovanni Rechichi, che si sarebbero prestati a fare da prestanome per società che l’accusa considera interamente riconducibili ai Tegano.

 

I Tegano nel cuore di Multiservizi

L’indagine ha svelato come il clan Tegano si sia per anni celato all’interno della compagine sociale della società mista Multiservizi, grazie al supporto di prestanome che nel tempo si sarebbero avvicendati alla guida delle società schermo del clan. Una verità che diversi pentiti – Giovambattista Fracapane, Paolo Iannò – avevano, nel corso degli anni già affermato, ricostruendo con sicurezza la mappa delle società del Comune finite in mano alle cosche, ma alla quale l’indagine condotta dalla Dda di Reggio Calabria, fornisce riscontri concreti. Riscontri che chiamano in causa la cosiddetta “borghesia mafiosa”, che ha permesso alla ‘ndrangheta di accedere al cuore economico della città: la pubblica amministrazione e il giro d’affari che attorno ad essa ruota. Protetti da un sistema complesso di scatole cinesi, ricostruito minuziosamente dagli investigatori coordinati dagli ufficiali delle Fiamme gialle Claudio Petroziello e Gerardo Mastrodomenico, i boss anche dal carcere avrebbero continuato a tenere saldamente in mano le redini delle imprese partner della Multiservizi. O meglio dell’impresa. Perché le società Com.Edil Srl, Si.Ca srl e Rec.im Srl, nonostante negli anni abbiano formalmente cambiato nomi e proprietari, da sempre – dicono le risultanze investigative – rispondono a una medesima identità economica e gestionale, quella del clan Tegano.

 

Il ruolo di Zumbo

Regista dell’operazione, almeno dal 2002 in poi, Giovanni Zumbo, uomo ormai noto tanto alle cronache come alla Procura, già condannato in due diversi procedimenti a 16 e 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Commercialista di professione, con un passato da amministratore di beni confiscati, oltre che ex collaboratore dei Servizi segreti, accreditato presso uffici giudiziari e agenzie di sicurezza, Giovanni Zumbo è stato sorpreso dagli investigatori a soffiare preziose e riservatissime informazioni su indagini in corso a boss di primo piano, come Giuseppe Pelle, dominus della ‘ndrangheta della Jonica, e Giovanni Ficara. Insieme a quest’ultimo, avrebbe avuto un ruolo non di secondo piano, nella messinscena architettata nel gennaio 2010 per accreditarsi come fonte attendibile presso investigatori e inquirenti, quando un’auto imbottita di armi venne fatta ritrovare – grazie a una soffiata dello stesso Zumbo – nel giorno della visita in città del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ma – dimostra l’operazione Astrea – Giovanni Zumbo era un professionista al servizio delle cosche. Per proteggere il patrimonio dei Tegano non avrebbe avuto remore a congegnare, assieme al cognato Roberto Emo, un fittizio passaggio delle quote delle società a favore delle rispettive mogli, l’avvocato Maria Francesca Toscano e la commercialista Maria Porzia Zumbo. La società, all’epoca in mano ai fratelli Antonio e Maurizio Lavilla, i prestanome del tempo troppo in odor di ‘ndrangheta per essere affidabili, rischiava di finire nel mirino degli investigatori. Era necessario un nome nuovo e un volto nuovo. La Toscano e la Zumbo, nonostante fossero solo formalmente proprietarie della società, negli anni si sarebbero prestate in modo consapevole non solo ad acquisirne la formale titolarità, ma anche ad effettuare, su mandato del clan, una serie di investimenti immobiliari, necessari per sottrarre agli investigatori case e magazzini a rischio sequestro. Acquisizioni propedeutiche a una nuova cessione di quote, questa volta a favore dei figli di Giuseppe Rechichi, il primo e più fidato prestanome dei Tegano.

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

Argomenti
Categorie collegate

Corriere della Calabria - Notizie calabresi
Corriere delle Calabria è una testata giornalistica di News&Com S.r.l ©2012-. Tutti i diritti riservati.
P.IVA. 03199620794, Via del mare 6/G, S.Eufemia, Lamezia Terme (CZ)
Iscrizione tribunale di Lamezia Terme 5/2011 - Direttore responsabile Paola Militano | Privacy
Effettua una ricerca sul Corriere delle Calabria
Design: cfweb

x

x