REGGIO CALABRIA Hanno scelto quasi tutti il procedimento con il rito abbreviato i 21 indagati dell’operazione “Erinni”, scaturita dall’omonima indagine partita nel 2011 per stringere il cerchio attorno ai latitanti dei clan della zona ma che riuscirà a fare luce sulle dinamiche criminali di Oppido, stretta fra le rivalità mai sopite – nonostante i tentativi di composizione passati anche da uno storico matrimonio – fra i clan Mazzagatti-Polimeni-Bonarrigo e Ferraro-Raccosta. Dovranno invece presentarsi il prossimo 19 dicembre di fronte ai giudici di Palmi per l’avvio del processo che li vede imputati Rocco Mazzagatti, Domenico Scarfone, Pasquale Rustico, Rocco Ruffa, Leone Rustico, Silvana Attenni, Valerio Pepe e Simone Pepe. Ed è proprio il giovanissimo Simone Pepe, uno dei principali imputati del procedimento non solo perché considerato capo del clan Mazzagatti-Polimeni-Bonarrigo, ma anche spietato killer e attento regista di un traffico di droga nella capitale. Si annuncia invece tutto in discesa il processo per l’unica donna che abbia scelto il rito ordinario, Silvana Attenni, difesa dall’avvocato Aldo Labate, che a dicembre, da imputata a piede libero, si presenterà di fronte ai giudici di Palmi, forte dell’annullamento delle accuse per associazione mafiosa rimediato in sede di Riesame e confermato dalla Cassazione, che ha rimesso in discussione anche l’aggravante delle modalità mafiose che pesava sugli altri reati che le vengono contestati.
Coordinata dai sostituti procuratori Alessandra Cerreti, Giovanni Musarò e Giulia Pantano della Dda di Reggio, l’inchiesta “Erinni” ha fotografato la realtà complessa e stratificata delle ‘ndrine di Oppido Mamertina, in grado di sparare, uccidere con metodi efferati, insanguinare le strade, in cerca di maggiore spazio e prestigio, ma anche di investire e puntare sul mattone lontano dalla Calabria, nella capitale dove, approfittando del sistema delle aste giudiziarie, è in grado di appropriarsi di immobili, attività commerciali e imprese. Senza mai dimenticare i “tradizionali”, efferati metodi, con cui le rivalità fra clan si misurano e si risolvono. Spesso in maniera definitiva.
L’OMICIDIO BONARRIGO E L’INIZIO DELLE OSTILITÀ
Rivalità che tracimano in una nuova stagione di sangue fra marzo e maggio del 2012. Cinque mesi durante i quali cadono, uno dopo l’altro, Domenico Bonarrigo, freddato il 3 marzo, Vincenzo Ferraro, ucciso il 13 marzo, Francesco Raccosta e il cognato Carmine Putrino, scomparsi il 13 marzo ed eliminati nel pomeriggio dello stesso giorno, e Vincenzo Raccosta, ammazzato il 10 maggio. Per gli inquirenti – si legge nell’ordinanza – «non si trattava però di una vera e propria faida, ma di una fibrillazione registrata all’interno della locale di Oppido Mamertina da parte di una cosca, quella Ferraro-Raccosta, immediatamente sopita da parte del gruppo ‘ndranghetista egemone, quello facente capo ai Mazzagatti, intenzionato a non abdicare il proprio maggiore potere mafioso conquistato negli anni della guerra». Una fibrillazione che rompe quei tre anni di pace che lo storico matrimonio fra i rampolli dei due clan, Francesco Raccosta e Giuseppina Mazzagatti, avevano sancito. A fornire agli inquirenti la chiave di lettura necessaria per interpretare quegli omicidi sono le parole di uno dei principali elementi del clan Bonarrigo, Simone Pepe, figliastro di Domenico Bonarrigo, per mesi intercettato e ascoltato dagli investigatori.
IL BACIO DI GIUDA
È stato il tentativo di espansione criminale dei Ferraro-Raccosta, firmato con continui furti, danneggiamenti ed estorsioni, a innescare la reazione di Domenico Bonarrigo, detto “Mimmazzo”, elemento di spicco del clan avversario, che avrebbe per questo pagato con la vita. Allo stesso modo, il clan rapidamente arriverà a identificare e punire i responsabili dell’omicidio di Domenico Bonarrigo «Chi ha ammazzato mio padre è venuto al funerale… quando mi è venuto davanti quello che lo ha ammazzato mi fa le condoglianze… io gli ho dato tipo il bacio di Giuda… capito come? Io l’ho preso, perché l’avevo capito subito che era stato lui, noi lo avevamo capito subito, la sera stessa lo avevamo capito…», dice – intercettato – Simone Pepe. Non a caso quella stessa sera – ricostruiranno gli inquirenti – tanto Simone Pepe, come Rocco e Giuseppe Mazzagatti, Rocco e Antonino De Pasquale si recheranno rispettivamente a casa di Massimo ed Emanuele Ferraro, fratelli del latitante Giuseppe, e da Francesco Raccosta per acquisire informazioni sui killer. «E lì ci siamo arrivati subito che erano loro».
LA VENDETTA PRETESA
Ma da quel momento, per il clan inizierà una stagione di terrore. Il ragazzo verrà allontanato da Oppido per il timore di una faida e la stessa sorte toccherà al cugino Francesco Mazzagatti, mentre i Bonarrigo-Polimeni-Mazzagatti stabiliscono che la morte di “Mimmazzo” deve essere vendicata. Ed è il giovanissimo figliastro a pretenderla dal clan: «L’unica cosa che voglio sentire sai qual è? – racconta Simone Pepe, riferendo una conversazione avuta in quei giorni con Giuseppe Mazzagatti – che vent’anni fa tuo zio, tuo padre c’erano, ed oggi voglio che tu, tuo zio, tuo cugino, ci state, perché adesso mi servite voi, io da solo sono nulla, ma con voi sono non forte, di più… Lo sai cosa mi ha risposto il fratello di Francesco? Simo’ tu sei come mio fratello, Mimmo era come mio padre, la famiglia mia è la famiglia nostra, punto». Ancor più eloquente sarà il prosieguo della risposta di Mazzagatti: «Adesso l’unica cosa che devi fare è andare da tua madre, devi avere questa forza perché adesso l’uomo sei tu, Mimmo lo sai chi era, Mimmo sai che era un capo e adesso diventi tu al posto di Mimmo, perché Mimmo ti ha portato avanti te, i tuoi fratelli sono piccoli, adesso ci sei tu», sappi che io adesso se prima… Mi ha detto, lo sai che mi ha detto? “Prima vedevamo Mimmo, adesso vediamo a te come se vedessimo Mimmo, ricordati queste parole – mi fa – Simò, non sbagliare più, non puoi sbagliare adesso, indietro non si può più tornare». Nel futuro ci sarà solo vendetta. Nonostante il tentativo di dissimulare i propri propositi, il clan Mazzagatti-Polimeni-Bonarrigo non rimane inerte di fronte all’omicidio di un suo componente di peso: per tutti sarebbe stato un inequivocabile segnale di debolezza. E i Mazzagatti – famiglia uscita “vincente” dalla faida degli anni 90, attualmente cosca egemone nel territorio di Oppido Mamertina, nota per il suo potere mafioso in tutta la Calabria – non potevano e non volevano permetterselo. Per vendicare la morte di “Mimmazzo”, ma anche per affermare la propria egemonia vengono uccisi Vincenzo Ferraro, Francesco, Carmine Putrino, e Vincenzo Raccosta.
CON LA BENEDIZIONE DEGLI ANZIANI, NEMICI IN PASTO AI MAIALI
Non a caso a dare luce verde e a collaborare al progetto di vendetta saranno – secondo quanto è emerso dall’inchiesta – anche personaggi del calibro di Domenico Scarfone, mente economica del clan da tempo trasferito a Genzano, o del boss latitante Domenico Polimeni, padre putativo di Domenico Bonarrigo, dopo l’uccisione del padre naturale Vincenzo negli anni della faida. Ancora oltre si spingerà Rocco Mazzagatti, al vertice dell’omonima famiglia mafiosa, che non solo appoggerà i propositi di vendetta del giovanissimo Simone Pepe, ma addirittura sarà suo complice nell’esecuzione materiale dell’omicidio di Francesco Raccosta e del cognato Carmine Putrino. Ai due – sintetizzano gli inquirenti – «fu teso un agguato, pianificato nei particolari, e fu riservata una fine orrida, atteso che furono barbaramente percossi e successivamente, ancora in vita, certamente Raccosta Francesco, dato in pasto a dei maiali».
L’ANIMA IMPRENDITORIALE DEL CLAN
Ma un clan capace di una reazione così efferata – è emerso dalle indagini – ha eguale spregiudicatezza negli affari. Un ramo di attività affidato principalmente a Domenico Scarfone, «uomo di grande spess
ore criminale, molto scaltro, attento a eludere le attività di indagini, evitando contatti diretti con la famiglia Mazzagatti e con altri pregiudicati della cosca, che dispone molto probabilmente di conoscenze all’interno delle forze dell’ordine che possano informarlo con anticipo dell’esistenza di indagini a suo carico, con grandi capacità profuse nell’investimento mobiliare ed immobiliare e nell’occultamento di fondi, trasferendo somme di denaro all’estero». Scarfone aveva sì rapporti con gli altri affiliati, ma si guardava bene dall’intrattenerli “alla luce del sole”. Nonostante fosse da anni residente a Genzano, in provincia di Roma, Scarfone rappresenta un elemento essenziale per il clan. Secondo gli inquirenti, interviene da protagonista nella pianificazione della risposta al clan avversario, ma soprattutto è lui, insieme a Rocco Mazzagatti, a decidere come e dove investire i soldi della famiglia e come farli sparire. Manovre finanziarie decise con la stessa serenità con cui, dopo l’omicidio Bonarrigo, avrebbe partecipato da protagonista alla pianificazione della vendetta, plastica rappresentazione di una ‘ndrangheta che non conosce remore e scrupoli. In nessun caso e in nessun campo.
a.c.
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