REGGIO CALABRIA Il tritolo per uccidere Nino Di Matteo era arrivato dalla Calabria, probabilmente dalle stive della Laura C, il mercantile inabissatosi nel ’41 con un enorme carico di esplosivo di fronte alle coste di Saline Joniche e per decenni divenuto vero e proprio arsenale a disposizione dei clan. Lo ha rivelato il collaboratore di giustizia Vito Galatolo, boss dell’Aquasanta che da qualche mese collabora con la magistratura, e al pm Di Matteo avrebbe fatto sapere “i mandanti per lei sono gli stessi del dottore Borsellino”. Mandanti – ha svelato il collaboratore – che rispondono al nome di Matteo Messina Denaro, il superlatitante che già nel dicembre 2012 avrebbe emanato la sentenza di morte per quel pm “che sta andando troppo oltre”. Nel giro di pochi mesi, il gotha delle famiglie di Cosa nostra si sarebbe dato da fare per raccogliere i 600mila euro necessari per finanziare l’operazione e reperire il tritolo. Una richiesta – ha raccontato il pentito – esaudita senza problemi dalle ‘ndrine calabresi che però ai “cugini” siciliani avrebbero inizialmente fatto arrivare esplosivo inutilizzabile, perché reso inservibile dall’umidità e pieno di infiltrazioni d’acqua. Materiale prontamente “sostituito” e che i clan – ha rivelato il collaboratore – avrebbero pensato di utilizzare per confezionare un’autobomba da piazzare nei pressi dell’abitazione del combattivo pm palermitano. Le difficoltà nel confezionare l’ordigno sarebbero state superate – stando a quanto riferito dal pentito – grazie a un “artificiere” che Matteo Messina Denaro avrebbe fatto intervenire al momento opportuno. Una circostanza non nuova, stando a quanto emerso in diverse indagini che tanto in Sicilia come in Calabria hanno svelato che ndrangheta e Cosa nostra si sono spesso scambiate killer, artificieri e “tecnici di morte”.
Anche l’inquietante ipotesi di attentare alla vita del pm Di Matteo con un’autobomba non è una novità per i magistrati della Dda di Palermo. Il progetto era stato infatti già anticipato dalle missive arrivate in Procura nel febbraio 2013 a firma di un misterioso “uomo d’onore di Alcamo”, di cui però Galatolo ha negato di essere l’autore. Nel commando che avrebbe avuto l’incarico di uccidere il magistrato c’è dunque un’altra gola profonda, che adesso i pm puntano a individuare anche grazie agli elementi forniti dal nuovo collaboratore. Indizi importanti come quello relativo all’esplosivo danneggiato proveniente dalla Calabria, che ai pm ha fatto subito pensare alla Laura C, la nave per troppi anni divenuta arsenale a disposizione delle ndrine e resa inaccessibile nel corso di una delicatissima operazione di polizia solo nel maggio scorso.
All’epoca, l’operazione di bonifica coordinata dalla Questura, con il supporto dei sommozzatori del Consubmin della Marina militare, ha portato al sequestro di 121 panetti di tritolo da 200 grammi ciascuno dalle stive del mercantile. La parte restante del carico – a detta dei tecnici impossibile da recuperare – è stata resa inaccessibile piombando gli accessi al mercantile. In passato però, l’esplosivo prelevato per ordine dei clan dalle stive del mercantile, è stato più volte utilizzato dalle cosche per attentati dinamitardi o piazzato sul sempre fiorente mercato del traffico illecito di armi. Stando a ipotesi investigative, confermate dalle dichiarazioni di alcuni investigatori, parte di quell’esplosivo sarebbe stato utilizzato negli anni Novanta per la strage di Capaci. Sul punto, i pm di Caltanissetta hanno sentito qualche settimana fa il pentito calabrese Nino Fume, che però ha dichiarato di non sapere nulla di certo al riguardo. Secondo indiscrezioni, altri collaboratori calabresi potrebbero essere molto più precisi di lui.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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