Deve essere un riflesso condizionato. Non c’è altra spiegazione. Tutte le volte che un uomo politico di governo e persino il capo dello Stato si occupa dei problemi della giustizia, sente la necessità di introdurre parole di monito, di polemica, di richiamo, nei confronti del protagonismo politico di alcuni pubblici ministeri, mentre invece il dovere di ogni magistrato sarebbe quello di lavorare in silenzio, scrivere sentenze, rifuggire dalle telecamere e non polemizzare con i progetti di riforma del governo in materia di giustizia. I giornali sono ghiotti di tali moniti e richiami, che contribuiscono a enfatizzare, evidenziano in prima pagina e a caratteri cubitali le bacchettate, le frustate, distribuite genericamente ai magistrati, quasi che si trattasse di servitori infedeli o di animali da cortile.
Nel migliore dei casi segnalano che si riaccende lo scontro tra politica e magistratura, una lotta tra poteri contrapposti per motivi di supremazia. Poi, ma non sempre, per addolcire la pillola, si aggiungono lodi ai tanti magistrati che lavorano in silenzio, con dedizione e riserbo. Nessuno fa mai i nomi dei protagonisti di turno, ma si può stare sicuri che non si fa riferimento a coloro che quasi quotidianamente siedono negli studi televisivi, ospiti di questo o quel noto conduttore, per esporre le proprie opinioni sui problemi della giustizia, con risposte spesso banali, quasi sempre compiacenti, autoreferenziali e inutili, (ché anzi, grazie alla popolarità mediatica acquisita, sono i più corteggiati dal potere), ma ai titolari di indagini particolarmente delicate riguardanti il rapporto mafia-politica o fenomeni corruttivi di sistema, verso i quali si dirigono e non a caso messaggi di intimidazione e annunci di attentati.
Il danno di immagine ovviamente non colpisce i pochissimi, rarissimi, pubblici ministeri che ancora si occupano di indagini così a rischio, ma l’intero corpo giudiziario, dal momento che l’opinione pubblica è autorizzata a pensare, vista l’altezza dei pulpiti dai quali vengono le prediche, che si dovrà trattare della maggioranza o, comunque, di una nutrita minoranza di magistrati, e non certo di poche unità non sufficienti a pareggiare le dita di una mano.
Ancora più insidioso è poi l’accostamento, in rapporto di causa ed effetto, tra il protagonismo da una parte e, dall’altra, la lentezza dei processi, il numero elevatissimo di procedimenti pendenti, le disfunzioni della giustizia. Ora, l’argomento è ridicolo per quanto riguarda il settore civile, nel quale si verificano i fenomeni più gravi di ritardi e di lentezza, se è vero che i protagonisti sarebbero per definizione i pubblici ministeri, mentre per il settore penale la ghigliottina che decapita centinaia di migliaia di processi all’anno si chiama prescrizione, la cui responsabilità va equamente ripartita al legislatore che l’ha introdotta nel 2005 e a quello che da allora annuncia di volervi porre rimedio e continua a non farlo, aggravando sempre più i danni che ne conseguono in termini di denegata giustizia nei confronti degli imputati innocenti, di quelli colpevoli, delle parti offese e del sistema giustizia nel suo complesso.
Adesso viene annunciata entro l’anno una nuova riforma della giustizia e non è chiaro se l’annuncio vuole avere un significato intimidatorio verso i magistrati. Lo dico dal momento che le riforme realizzate in materia nel corso del 2014 hanno riguardato la riduzione delle ferie dei magistrati (poca, inutile, cosa), ma soprattutto l’esodo forzato di cinquecento magistrati ultrasettantenni, esodo che avverrà in blocco alla scadenza del 31 dicembre 2015. La misura, realizzata con decreto legge, poi convertito grazie al consueto voto di fiducia “svuotaparlamento”, doveva rispondere a pressanti esigenze politiche mai chiarite, perché non solo è stata disposta senza alcuna necessità e senza alcuna motivazione di altro genere, ma è produttiva di gravi e sinora non del tutto valutati danni proprio in ordine ai problemi di lentezza nella trattazione dei processi, di aumento delle pendenze civili e penali, che, a parole, si dice di volere eliminare. Una misura senza precedenti e senza eguali in Europa. O meglio, un precedente c’è, anche se nessuno dei commentatori politici e giornalistici lo ha ricordato, non si sa se per pudore o per ignoranza.
Per trovarlo, questo precedente, bisogna andare in Ungheria, il cui governo non è certo modello di democrazia e di tolleranza, laddove la riduzione dell’età pensionabile dei giudici, notai e procuratori è stata introdotta dalla nuova Legge Fondamentale ungherese (l’equivalente della nostra Costituzione), e rispettivamente dagli articoli 26, paragrafo 2, e 29, paragrafo 3. Nelle disposizioni transitorie si stabiliva che i giudici e i procuratori che avessero raggiunto la nuova età pensionabile (62 anni) sarebbero andati in pensione entro il 31 dicembre del 2012. Una legge collegata alla nuova Costituzione aveva inoltre previsto la cessazione dei notai dalle proprie funzioni al compimento del sessantaduesimo anno di età. In precedenza l’età pensionabile di queste categorie era di anni 70. L’operazione, la cui conseguenza pratica era il pensionamento coatto, nel solo 2012, di più di 200 giudici, aveva un carattere largamente politico, visto che, come rilevato da tutti i commentatori delle democrazie occidentali, i giudici collocati a riposo coattivamente, avrebbero dovuto essere sostituiti dall’Ufficio giudiziario nazionale, istituito e nominato dal nuovo Parlamento.
La legge ricevette però una doppia sanzione di nullità. La prima, con effetto retroattivo, da parte della Corte costituzionale ungherese con sentenza del 16 luglio del 2012, la seconda con la sentenza della Corte di Giustizia di Strasburgo del 6 novembre 2012, nella causa C-286/12.
Non essendo possibile richiamare l’intera sentenza in esame, si segnala che la Corte di Giustizia ha stabilito che l’abbassamento dell’età pensionabile di giudici, notai e procuratori da 70 a 62 anni, costituiva una discriminazione ingiustificata in base all’età, e pertanto vietata dalla direttiva 2000/78/CE. La Corte ha ritenuto inoltre che le modifiche introdotte non perseguono le rispettive (dichiarate) finalità in modo adeguato, difettando, in particolare, della necessaria gradualità. Rispetto alla finalità dell’uniformazione del limite di età pensionabile, la Corte ha rilevato che le nuove disposizioni «hanno abbassato bruscamente e considerevolmente il limite di età per la cessazione obbligatoria dell’attività, senza prevedere misure transitorie idonee a tutelare il legittimo affidamento delle persone interessate». Solo per inciso, va ricordato che la misura del parlamento ungherese colpiva circa 200 magistrati, mentre quella italiana colpisce una platea assai più vasta, visto che riguarderà circa 500 magistrati. I profili di incostituzionalità rilevabili della legge 114 del 2014 (che ha convertito in legge il decreto legge n. 90 dello stesso anno) sono numerosi e vanno dalla violazione dell’articolo 77, che detta regole rigidissime per l’adozione di decreti legge da parte del governo, all’articolo 3 (principio di eguaglianza), 97 (buon andamento della pubblica amministrazione), 107 (inamovibilità dei magistrati).
Di tutto questo né maggioranza, né opposizione si sono fatti carico, e persino l’Associazione nazionale magistrati, ha alzato una netta voce di dissenso. L’attivismo di governo e Parlamento in materia di giustizia comprenderà anche la riforma della responsabilità civile dei magistrati, i cui effetti nefasti sulla giurisdizione (e sullo stesso buon funzionamento della macchina giudiziaria) si faranno immediatamente sentire con l’entrata in vigore della riforma.
Al contrario, sulle riforme, quelle serie, che riguardano la tutela dei diritti e la sicurezza dei cittadini, si procede con passo lento. In particolare, continua la sottovalutazione, ingiustificata e dolosa, della presenza mafiosa nel Paese. Eppure i segnali sono ormai ripetuti e allarmanti: dopo le regioni meridionali, si è appreso, sia pure con ritardo ventennale, d
ell’occupazione mafiosa (leggi ‘ndrangheta) di Lombardia, Piemonte e Liguria, quindi, con il consueto ipocrita stupore, di Roma capitale, e poi di Umbria, e così via procedendo (oggi sono a rischio regioni ritenute immuni come Abruzzo, Marche, Friuli, ecc,), senza che questo comporti richiami, moniti, da parte dei vertici delle istituzioni.
Si rinnovano segnalazioni di ripresa di uso indiscriminato della violenza, anche da parte della destra eversiva fascista, oltre che degli anarco-insurrezionalisti. Ciò nonostante, nulla sembra turbare il consueto teatrino della politica, autoreferenziale e indifferente ai problemi dell’Italia. Si parla di sviluppo e crescita, senza capire che la causa principale della impossibilità di sviluppo e crescita è rappresentata dalla presenza delle mafie, dal drenaggio di enormi risorse pubbliche per effetto del sistema corruttivo, comprensivo ormai a pieno titolo di quello mafioso, dell’inquinamento dell’economia e della democrazia ad opera del capitalismo mafioso e delle sue relazioni con la criminalità economica internazionale. Si aggiunga la sostanziale impunità che regna in materia di reati ambientali, economici, amministrativi, fiscali, per effetto della prescrizione (sarebbe meglio chiamarla con il termine depenalizzazione) e dell’ineseguibilità delle sentenze di condanna per i reati puniti sino a ben 4 anni di reclusione. Quando il capo del governo afferma che le pene per la corruzione saranno aumentate dagli attuali 4-10 anni a 6-12 anni, in modo che anche in caso di patteggiamento il condannato non possa evitare il carcere, dovrebbe ricordare che, in caso di applicazione di patteggiamento, la pena minima si riduce a 4 anni (senza contare l’ulteriore diminuzione per le eventuali attenuanti generiche), e dunque opererebbe il regime della messa in prova, senza neppure un giorno di detenzione in carcere.
L’estensione è stata introdotta con la legge svuotacarceri del 21 febbraio 2104, n. 10, «perché ce lo chiedeva l’Europa», dove, in realtà, in nessun Paese sono previste norme del genere, dove anzi le sentenze di primo grado sono immediatamente esecutive, con ristrettissime possibilità di impugnazione in secondo grado o in Cassazione. La conseguenza immediata della nuova normativa è l’aumento esponenziale di reati contro il patrimonio (furti in abitazione, rapine, ecc.), per non parlare dei reati fiscali e contro la pubblica amministrazione. La sicurezza collettiva è a rischio, ma abbiamo evitato le ire (e le sanzioni) dell’Europa.
*magistrato
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