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La denuncia silenziosa dell’uomo in "Lingua Imperii"

COSENZA Crimea, primavera del 1942. Due interlocutori, un ufficiale delle SS, Hauptsturmfürer Aue, e Leutnant Voss, linguista e giovane ufficiale dell’esercito, discutono tra loro. Apparentemente la…

Pubblicato il: 31/01/2015 – 13:50
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La denuncia silenziosa dell’uomo in "Lingua Imperii"

COSENZA Crimea, primavera del 1942. Due interlocutori, un ufficiale delle SS, Hauptsturmfürer Aue, e Leutnant Voss, linguista e giovane ufficiale dell’esercito, discutono tra loro. Apparentemente la loro conversazione è incentrata sull’appartenenza linguistica di alcune popolazioni del Caucaso. Inizia così “L.I. Lingua Imperii – violenta la forza del morso che la ammutoliva” della compagnia di Castelfranco Veneto “Anagoor”, scritta da Simone Derai e Patrizia Vercesi, andata in scena ieri sera al “Teatro Morelli” di Cosenza. La particolarità della scena è data dal fatto che gli attori Hannes Perkmann e Benno Steinegger, sono proiettati su due monitor sospesi al lato del palco. In un arco di tempo che va dalla primavera del ’42 all’autunno dello stesso anno, i due ufficiali affronteranno la possibilità che ci sia, su semplici supposizioni linguistiche, una discendenza ebraica in una comunità del Caucaso e dell’eventuale sterminio di questa. Punto chiave: politica delle nazionalità sovietiche, incentrate sulla collettività linguistica. (I loro dialoghi sono tratti da “Le benevole” di Jonthan Littell).
Un’unica lingua, non studiata come tentativo di unire le più di cinquanta popolazioni che vivono nel Caucaso, ma come volontà malsana e totalitaria di privarle tutte di una propria identità, così da poterne avere maggiore presa e controllo. La lingua di “Lingua Imperii” è quella della violenza e della perdita della parola stessa. È un rapporto a tre in cui parola, totalitarismo e caccia si intersecano e si svelano sul palco a partire da tempi antichi. Esercito greco contro Troia, Eschilo e l’uccisione di Ifigenia, sacrificata dallo stesso padre davanti a tutto l’esercito affinché il viaggio per partire alla conquista di Troia fosse propizio. L’indovino Calcante e l’uccisione delle lepri da parte delle aquile. «Questo ci si aspetta dagli animali: che possano cadere sotto i nostri colpi senza proferire parola» dirà in scena l’attore Marco Menegoni.
Uomini torturati e uccisi come bestie sacrificali, secondo un concetto universale di potere di un uomo su un altro uomo. I totalitarismi si susseguono nel corso della storia – e dello spettacolo – di pari passo alla caccia, vista in una sua funzione ambivalente: «Curiosa è l’idea che in italiano la parola “cacciare” abbia due significati – spiega sempre Menegoni -. Da una parte c’è quella del predare, del catturare. Ma cacciare significa anche “escludere con forza”, rigettare, allontanare, togliere qualcosa, mandarlo via. La caccia è un movimento di inclusione coercitiva e un movimento di esclusione con forza. Diciamo che la violenza è sempre implicata. Ma se da una parte c’è l’idea di inglobare, dall’altra parte c’è l’idea di espellere. I due concetti che si assomigliano, ma sono diversi come movimento». La caccia è rappresentata in scena da un enorme bersaglio sospeso alle americane del teatro e tenuto con un contrappeso, in modo da bloccarne la caduta. Vittime e carnefici, come Jean Améry torturato a Breendonk dalle SS, sollevato dall’alto con dei ganci e le braccia legate dietro la schiena; la tortura di Gastone Novelli a Dachau, che dopo l’internamento andò a vivere con gli aborigeni di un villaggio del Sud America e qui coniò un nuovo linguaggio basato sulla lettera “A” «suoni ascendenti e discendenti come un grido prolungato» si recita in scena; la ragazza di Sarajevo che ha perso tutti i suoi amici per mano dei cecchini e «non sapeva e poteva più piangere»; i ghetti di Varsavia in cui si moriva, ma poi «la cosa non faceva tanta impressione»; il massacro di Srebrenica dopo il quale «non siamo in grado di vivere senza sentire la vergogna», l’Armenia nel XIV secolo, in cui fu «massacrata una parte di popolazione, bruciata viva la restante parte»; i Sonderkommando, la cui vita non è che la morte e il rischio è di riconoscere i loro stessi cari nei corpi di cui si devono disfare, ma su tutti S. Giuliano, la cui eccessiva passione venatoria l’ha portato a interrogarsi, dopo aver visto lo scempio compiuto su «Come ho potuto giungere a tanto?».
I nove attori della “Anagoor” (Anna Bragagnolo, Moreno Callegari, Marco Crosato, Paola Dallan, Marco Menegoni, Gayanée Movsisyan, Alessandro Nardo, Viviana Callegari, Monica Tonietto), non hanno la volontà di voler rappresentare una storia, ma quella di portare in scena “la storia”. Gli attori non interpretano un personaggio, ma idee che vengono incarnate sotto forma scenica, attraverso i video (sono tre i pannelli in cui si proiettano le immagini) la recitazione e il canto e i silenzi evocativi. Durante lo spettacolo si cambiano d’abito, ma non c’è l’idea di interpretare qualcosa, quanto di evocarlo. C’è la volontà di rappresentare la coercizione eliminando le categorie: la violenza ha lo stesso aspetto e lo stesso dolore tanto sugli uomini, quanto sugli animali. Si assiste alla volontà di degradare l’uomo ad animale e catturarlo e ucciderlo, come a sentirsi autorizzati a compiere un atto di potere. In scena vengono proiettate figure imbavagliate. Uomini e donne le cui bocche, orecchie e occhi sono cinte da strumenti di metallo dotati di soli buchi, così da permettere loro di respirare, sentire, ma non di parlare o ricordare, perché secondo la cultura latina nell’orecchio risiedeva la memoria.
Uomini paragonati a greggi di pecore marchiati di blu, come fossero tutti omologati o prigionieri di uno stesso campo di detenzione. Sui quindici “Consigli per un genitore in lutto”, elencati in inglese, tedesco, francese, armeno, russo e serbo croato, si accavallano le lingue e si spogliano i corpi, che formeranno un montagna umana, memoria troppo pesante che la storia ha lasciato in eredità al mondo. In chiusura, dopo che il soffio dell’attore spegne le luci e fa “tramontare il sole”, sulle note di un canto popolare in lingua armena, un cervo sullo schermo guarda, dall’alto della sua imponente fisicità, il pubblico. Lo fissa, immobile, come fosse giudice di quello stesso uomo che si rende predatore di un suo simile, al punto di privarlo della “libertà” molto prima che della vita.

 

Miriam Guinea

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