REGGIO CALABRIA Cinque latitanti braccati in poco più di un mese, due di loro sorpresi grazie a un’attenta e costante attività di controllo del territorio in grado di leggerne anche le minime anomalie. Cade l’ennesimo latitante nelle mani dei carabinieri del Comando provinciale di Reggio. A tradire Antonino Zampaglione, storico uomo di fiducia del clan Iamonte, è stato il curioso via vai di gente che i militari dell’aliquota radiomobile hanno registrato attorno all’abitazione principale degli uomini cui aveva affidato la propria latitanza, i fratelli Fortunato e Francesco Calabrese, insieme alla compagna di quest’ultimo, Elena Ciolaci. «Per alcuni giorni – spiega il colonnello Gianluca Valerio – gli uomini del Nucleo radiomobile, nel corso della routinaria attività di pattugliamento e controllo del territorio, hanno notato movimenti sospetti attorno a un’abitazione di Catona. Si pensava a un movimento di droga o di armi, per questo abbiamo deciso di aumentare la sorveglianza». Per due giorni quella casa viene tenuta sotto osservazione dai militari, fin quando, nella mattinata di oggi, arriva la svolta. «Qualche ora fa abbiamo visto due soggetti che si allontanavano in macchina ed è stato disposto un pedinamento a distanza».
I due – Fortunato Calabrese e la compagna – hanno fatto appena in tempo a entrare nella loro abitazione di San Roberto, piccola frazione preaspromontana poco distante dalla città, che i carabinieri hanno fatto irruzione. Nel giro di pochi minuti, un manipolo di uomini passa al setaccio la casa, mentre gli occupanti iniziano a dare visibili segni di nervosismo. Gli animi si alterano, si comprende che c’è qualcosa che non va, ma non i militari non trovano né armi né droga. Eppure i tre sono troppo nervosi per essere “puliti”.
A tradire Zampaglione, nel frattempo rifugiatosi nella soffitta di un locale-magazzino annesso all’abitazione, sarà un fil di ferro. «Uno dei militari – aggiunge Marco Liguori, comandante del Norm, il nucleo operativo radiomobile – si è accorto che il fil di ferro che sbarrava l’accesso alla scala d’accesso al sottotetto non presentava segni di ruggine, ma al contrario sembrava essere stato toccato di recente». Un particolare che ha attirato l’attenzione dei militari, che hanno deciso di verificare cosa ci fosse in quel locale. Nascosto nella controsoffitta hanno trovato Zampaglione, immediatamente riconosciuto da uno dei carabinieri. «Da tempo non c’erano indagini specifiche su di lui, ma le ricerche si sono sempre concentrate sull’area di Melito e Montebello Jonico, dove vive ancora gran parte della sua famiglia. Ma non abbiamo avuto difficoltà a identificarlo sia perché è stato riconosciuto da uno dei nostri uomini, sia perché al momento dell’arresto – aggiunge il capitano Francesco Sorricelli – non ha opposto resistenza né ha negato le sue generalità».
E del resto, a nulla sarebbe servito farlo. Subito dopo l’arresto dei tre, i militari hanno proceduto alla perquisizione dell’abitazione principale della coppia, dove hanno trovato un borsone contenente vestiti, farmaci e fotografie dei familiari di Zampaglione che hanno reso certa la sua identificazione.
Condannato in via definitiva di reclusione a 28 anni di carcere per associazione mafiosa e omicidio, di cui gliene restano oltre 24 da scontare, Zampaglione era da tempo inserito nell’elenco dei latitanti pericolosi. Per i giudici, è lui il mandante e l’esecutore dell’omicidio di Antonino Pangallo, freddato il 6 febbraio del ’90, ma soprattutto per oltre vent’anni è stato l’uomo di fiducia di Natale Iamonte, storico capo del clan che da decenni tiene in ginocchio Melito Porto Salvo.
Formalmente imprenditore del movimento terra e padroncino di camion e autoarticolati, nei primi anni Ottanta Zampaglione colleziona le prime indagini a carico per il riciclaggio di denaro proveniente da un sequestro. In seguito, proprio grazie ai suoi camion che fanno su e giù per la penisola – scopriranno gli inquirenti grazie anche alle rivelazioni dei pentiti – si ritaglia un ruolo sempre più importante nell’organizzazione.
Stando a quanto emerso dalle indagini, sarà lui infatti ad occuparsi della movimentazione della droga sull’asse Reggio Calabria-Milano. «Secondo i nostri calcoli – chiarisce al riguardo il comandante Valerio – era in grado di movimentare oltre 500 chili l’anno di droga».
Condannato in via definitiva nell’ambito del procedimento “Rose rosse”, l’uomo era stato scarcerato nel 2009 per motivi sanitari e due anni dopo colpito da una nuova ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip di Torino nell’ambito dell’inchiesta “Minotauro”. Un procedimento da cui uscirà pulito, ma il cui esito non altererà la decisione di darsi alla macchia. A spingerlo alla latitanza è stata infatti la sentenza della Cassazione che nel 2012 ha reso definitiva l’ultraventennale condanna rimediata nel procedimento che per primo ha messo in ginocchio il potente clan Iamonte.
Per lui, come per i tre che gli hanno permesso di sottrarsi alla cattura, adesso si sono aperte le porte del carcere. Ma le indagini non si fermano. «Già da domani mattina – conclude il colonnello Valerio – inizieremo a lavorare per comprendere quali legami ci siano fra i fratelli Calabrese e Zampaglione», ma soprattutto – aggiunge – come mai uno storico uomo del clan egemone di Melito abbia scelto di nascondersi nell’hinterland nord di Reggio Calabria.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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