REGGIO CALABRIA C’è un tipo di teatro che ha la capacità di lasciare lo spettatore senza parole, tanto che sarebbe meglio affidarsi solo alle semplici emozioni: riso, pianto e, infine, la catarsi. Lo spettacolo “Il triangolo azzurro” della compagnia spagnola “Micomicòn – Centro dramatico nacional” andato in scena domenica sera al “Cilea” di Reggio Calabria, appartiene a questa categoria. La compagnia spagnola ha portato a teatro la volontà di fare della fotografia nei campi di sterminio nazisti una testimonianza storica, partendo dalla consapevolezza che ben peggiore della scomparsa fisica di un uomo ci sia la possibilità che di lui non se ne conservi la memoria.
“Il triangolo azzurro” – che secondo il sistema di catalogazione tedesco era il simbolo riservato ai politici spagnoli –, recitato in lingua originale e sovratitolato in italiano, racconta la storia di un gruppo di persone che il 6 agosto 1940 arrivarono a Mauthausen, sfuggiti alla dittatura di Francisco Franco ma fatti prigionieri dai tedeschi. In cinque anni, su settemila spagnoli passati dal campo, solo duemila sopravvissero. Nonostante gli eccidi, nel campo la vita riesce a trovare strade diverse. Due gruppi, provenienti da zone diverse del Paese, si uniscono. Da un lato tre musicisti mettono in piedi una compagnia di varietà, dall’altra quattro uomini (Ricken, Toni, Paco e Jacinto) lavorano al “Servizio di informazione fotografica” con il compito di documentare, attraverso gli scatti di una Leica, la vita nei campi, comprese le deportazioni, le torture, le cremazioni, e l’attività di Heinrich Himmler come Reichsführer all’interno di Mauthausen. È qui che prende vita l’idea di trafugare i vetrini e portarli nel villaggio austriaco più vicino, contando sulla complicità di Oana, la zingara del campo, prostituta per le guardie e amica dei detenuti. Il successo di questa impresa ha un sviluppo drammaturgico costantemente in bilico tra il ridicolo e l’orrore. La violenza, la morte, i suicidi sono realmente mostrati, ragion per cui lo spettacolo sia stato vietato ai minori di 14 anni. I tentativi di possedere la donna e i soprusi contro di essa, gli abusi di potere da parte delle guardie Brettmeier e La Begun, sono mostrati senza filtri.
È la comicità affidata al varietà del campo che spezza l’orrore, ma l’elemento ludico dato al burlesque riporta alla grande distanza tra le due situazioni, così ciò che all’inizio può sembrare un sorriso si trasformerà inevitabilmente in commozione o pianto. L’impiccagione del detenuto Bonarewitz, definita da Ricken «una semplice buffonata», i suicidi, la “via crucis” tra i morti dei Sonderkommando, le aggressioni e i maltrattamenti, sono accompagnati dal paso doble e dal chotis, canzoni e balli tipici spagnoli in cui si ricorre a parrucche, cappelli e oggetti di scena propri del burlesque. Dal momento che «a Mauthausen i compleanni si festeggiano fucilando», ricorda Paco, il 20 aprile del 1942 il Führer celebra il suo uccidendo un notevole gruppo di jugoslavi. L’uomo ricorda l’impresa ariana, mentre dalla stanza attigua alla camera oscura provengono le urla dei prigionieri giustiziati dalle guardie. «Perché lo chiamano colpo di grazia? Non ha niente della grazia» osserverà Paco assistendo alla scena da un piccola finestra posta in alto sul fondale. I momenti di maggiore amarezza sono affidati alle lettere che gli internati immaginano di aver consegnato alle proprie mogli, madri o figli: «Sappi che ti amerò sempre, dal posto peggiore del mondo dove Dio non esiste», dirà Toni alla moglie Sole. Perfino lo spietato Brettmeier ha sembianze umane quando chiama a casa per sincerarsi della buona guarigione della figlia.
La rappresentazione prende spunto dal testo di Benito Bermejo Sanchez “Francisco Boix, il fotografo di Mauthausen”. «Il libro racconta la storia delle peripezie della fotografia nei campi e mi è servito per introdurre una parte dello spettacolo – spiega Mariano Llorente, “Brettmeier” e co-autore del testo –. Dopo, leggendo di più sulla vita degli spagnoli a Mauthausen, scoprimmo cose che ci resero molto orgogliosi dei nostri compatrioti lì al campo. Furono capaci di chiedere il permesso per fare uno spettacolo di teatro, come il cabaret. Fecero un varietà con gente realmente travestita per come mostro in scena. Lo humour che spiego è molto mediterraneo, qualcosa tipico della Spagna, è uno humour nero molto rappresentato dalla figura di un drammaturgo come Ramón María del Valle-Inclán, al quale mi sono ispirato». Il testo è stato scritto a quattro mani con la moglie Laila Ripoll che dello spettacolo è anche regista, mentre le musiche originali sono di Pedro Esparza. Gli attori hanno saputo portare in scena semplicemente la poesia, nell’accezione più aulica del termine. La bravura interpretativa e canora, le scenografie suggestive affidate sia al fumo che fuoriusciva ai lati del proscenio che alle foto originali degli internati, lo svolgimento scenico e i trucchi drammaturgici studiati ad hoc hanno reso questa pièce quasi perfetta.
Unica pecca della serata, quella parte di pubblico attratta, più che dall’arte in secna, dal proprio smartphone e dalla risata facile per una traduzione non in sincrono.
Miriam Guinea
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