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A Reggio la "Testa" di tutte le 'ndrine

Non solo in Calabria, non solo oggi, le ‘ndrine reggine sono e sono state nel tempo la testa della ‘ndrangheta tutta. Sul punto è chiara la relazione della Procura nazionale antimafia, che senza mezz…

Pubblicato il: 24/02/2015 – 21:33
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Non solo in Calabria, non solo oggi, le ‘ndrine reggine sono e sono state nel tempo la testa della ‘ndrangheta tutta. Sul punto è chiara la relazione della Procura nazionale antimafia, che senza mezzi termini sottolinea «le cosiddette proiezioni extra-calabresi della ‘ndrangheta cittadina hanno assunto, anche nei nuovi territori, caratteristiche peculiari che si avvicinano molto a quelle assunte dalla ‘ndrangheta nella casa madre di Reggio Calabria». Esempio ne sia l’evoluzione criminale della costola lombarda dei Valle-Lampada, proiezioni delle famiglie De Stefano e Condello, finiti al centro di indagini che ne hanno svelato i rapporti con esponenti di rilievo della politica e delle istituzioni, magistratura inclusa. È il caso del giudice Giancarlo Giusti, all’epoca in servizio presso il Tribunale di Palmi, scoperto a completa disposizione del boss Giulio Lampada, in cambio di donne, regali e favori, come del collega Vincenzo Giglio, presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, ma anche dell’avvocato del foro di Palmi Vincenzo MIinasi e dell’ex consigliere regionale della Calabria Francesco Morelli. Non diversi erano i rapporti che Mario Trovato, parente del boss Franco Coco Trovato carismatico capo ‘ndrangheta di origini catanzaresi ma divenuto, a tutti gli effetti, un De Stefano a seguito del matrimonio di sua figlia con Carmine De Stefano, intratteneva nel Lecchese. «Come se fosse scritto in una sorta di dna ‘ndraghetista – si legge nella relazione – ancora una volta, si ha la riprova decisamente insuperabile, della specifica attitudinedella ‘ndrangheta (di derivazione) cittadina di assolvere quel compito di cerniera fra sodalizio ed Istituzioni che rappresenta uno dei punti di forza della ‘ndrangheta nel suo complesso».
Un ruolo consolidato nel tempo e che è rimasto in mano alle ‘ndrine reggine, nonostante – sottolineano i magistrati della Procura nazionale antimafia – nel tempo la ‘ndrangheta – soprattutto cittadina – abbia cambiato volto e forma. Le regole e strutture, scaturite da quella seconda guerra di ‘ndrangheta che ha lasciato sul terreno oltre settecento morti ammazzati, non hanno infatti stravolto le funzioni del mandamento centro, ma – ha svelato il procedimento Meta – hanno affidato la delicata gestione dei rapporti istituzionali e imprenditoriali di alto livello a ben individuabili personaggi di un ristrettissimo direttorio di comando, per questo condannato a pene durissime dal Tribunale reggino. Un organismo decisionale – scriveva il Collegio e si richiama oggi nella relazione – che «rappresenta un qualcosa di molto diverso, avendo come finalità quella di coordinare e dirigere la gestione – in via ordinaria e costante – di tutte le attività criminose che si consumano nel mandamento di centro (in particolare il capillare taglieggiamento di commercianti ed imprenditori ed il controllo del settore degli appalti pubblici), evitando il sorgere di conflitti, imponendo un controllo accentrato dall’alto al di là dei confini territoriali tradizionali, pur nella permanente limitata operatività delle singole consorterie».
A Reggio a comandare è «un’autonoma associazione criminale distinta dalle singole associazioni – non un mero vertice collegiale di una super-associazione nata dalla integrazione delle associazioni medesime – avente autonomia funzionale, strutturale e organizzativa, composta dai vertici delle cosche cittadine più potenti, con a capo De Stefano Giuseppe, in qualità di “Crimine”, universalmente riconosciuto, in grado di imporre regole da tutti condivise e rispettate, di dare stabilità, di intervenire con potere coercitivo, nonché di rapportarsi con le istituzioni, la massoneria e la politica, i cui collegamenti in questo processo sono emersi allo stato embrionale e sono in corso di esplorazione investigativa in altri procedimenti».
Relazioni coperte dal massimo grado di segretezza e che si pongono in linea di continuità con quelle che i clan hanno iniziato a tessere a partire dagli anni Settanta, con l’istituzione della Santa di cui oggi il direttorio delle ‘ndrine reggine raccoglie eredità e ruolo.
Non a caso risulta straordinariamente familiare al profilo criminale che l’élite dei clan di Reggio città riesce ad esprimere la particolareggiata descrizione che la Commissione parlamentare antimafia della XIII legislatura aveva fatto della Santa, definendola «una struttura nuova, elitaria, estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i limiti della vecchia onorata società e della sua sub cultura, e soprattutto senza i tradizionali divieti, fissati dal codice della ‘ndrangheta, di avere contatti di alcun genere con i cosiddetti “contrasti”, cioè con tutti gli estranei alla vecchia onorata società».
Con la sua nascita – si specificava all’epoca – «nuove regole sostituivano quelle tradizionali, le quali non scomparivano del tutto, ma che restavano in vigore solo per la base della ‘ndrangheta, mentre nasceva un nuovo livello organizzativo, appannaggio dei personaggi di vertice che acquisivano la possibilità di muoversi liberamente tra apparati dello stato, servizi segreti, gruppi eversivi».

 

a.c.

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