REGGIO CALABRIA A qualche mese dalla condanna a cinque anni rimediata nel procedimento Reggio Nord, dovrà tornare di fronte a un giudice l’imprenditore Pasquale Rappoccio, ex patron della Medinex considerato dai pm una delle principali interfacce imprenditoriali dei clan reggini. Il pm Giuseppe Lombardo ha infatti chiesto il rinvio a giudizio per tutti gli indagati dell’inchiesta “‘Ndrangheta banking”, l’indagine che ha portato alla scoperta di un gigantesco sistema di credito parallelo gestito dai clan Condello e Pesce–Bellocco, ma ha svelato soprattutto come il milanese sia divenuto il principale terreno di reinvestimento dei profitti illeciti delle cosche reggine.
GLI INDAGATI
Un sistema in cui secondo il pm Lombardo erano a pieno titolo coinvolti non solo i dieci arrestati all’epoca dell’esecuzione dell’operazione – oltre a Rappoccio, Francesco Buda, Giuseppe Codispoti, Domenico Condello, Francesco Condello, Gianluca Ciro Domenico Favara, Francesco Foti, Fortunato Danilo Paonessa, Vincenzo Pesce e Carmelo Vardè – e i sei che nel giugno scorso sono finiti ai domiciliari (Carlo Avallone, Antonino Cotroneo, Biagio Francesco Maduli, Paolo Pizzimenti, Maria Grazia Polimenti e Giacinto Polimeni e Mario Donato Ria), ma anche Giulio Lampada e il fratello Francesco. Il sostituto della Dda reggina ha chiesto il processo anche per il boss calabrese, espressione meneghina del clan Condello, perché accusato insieme al fratello Francesco di aver fittiziamente attribuito ad una serie di soggetti la titolarità della Slot dello Stretto, società operante nel settore del noleggio e della distribuzione di slot machine e “macchinette”, divenuta egemone in città e non solo. Una schermatura di consapevoli prestanome, che ha permesso a Domenico Condello – considerato soggetto cerniera tra le teste di legno e i vertici dell’omonimo clan di cui i Lampada sono piena espressione – di “controllare ampi settori dell’economia locale”.
L’INCHIESTA CHE FOTOGRAFA L’EVOLUZIONE DELLA ‘NDRANGHETA
Ma questo non è che uno degli aspetti messi in luce dall’indagine che ha portato alla scoperta di una vera e propria banca parallela, che ha portato alla rovina almeno quattro imprenditori, ma soprattutto fotografa i nuovi equilibri fra clan attraverso il prisma di una ndrangheta che si è evoluta, ha abbandonato l’orizzontalità dei primordi, in cui cosche monadi si relazionavano in maniera paritaria e orizzontale con le altre famiglie più o meno contigue per territorio, per affermarsi come organizzazione piramidale e unitaria, che anche in virtù di accordi di vertice seguiti a sanguinosi conflitti, senza perdere nulla della propria capacità militare, preferisce ricercare l’accordo piuttosto che perseguire lo scontro. Un’evoluzione di cui la figura di Gianluca Favara, ambasciatore dei clan e per il pm Lombardo figura chiave dell’indagine, è la più fedele cartina tornasole. Ascoltato con interesse dalle cimici del Ros , il 24 dicembre del 2009 Favara spiega infatti «Con questi qua – dice Favara ai suoi interlocutori al termine della visita dell’imprenditore reggino Carmelo Barbieri – è successo un bordello. Io non sapevo niente, questi sono venuti a trovarmi e non mi hanno trovato perché io ero a Milano, che c’era la gara al Comune di Rosarno e hanno partecipato». I «questi qua» di cui Favara parla, non sono imprenditori qualunque e tanto meno lo avevano cercato per una visita di cortesia. I fratelli Domenico e Vincenzo Carmine Barbieri sono considerati imprenditori al servizio del clan Buda-Imerti e la preannunciata visita altro non è se un incontro necessario per accordarsi sulle modalità di partecipazione a quell’appalto.
QUELL’APPALTO CONTESO E IL SECONDO LIVELLO
Ma “l’ambasciatore” era assente, per questo i Barbieri si rivolgono ai De Stefano «storicamente considerati la “mamma” del mandamento di centro della ‘ndrangheta calabrese – si legge nelle carte – per stabilire un contatto con Marcello Pesce, esponente di spicco di uno dei rami dell’omonimo clan, per ricevere a partecipare alla gara d’appalto». Ma la situazione si complica. E non solo perché un altro esponente di vertice dell’omonimo clan della Piana – Vincenzo Pesce, detto “Sciorta” – aveva già messo gli occhi su quel lavoro, programmando di affidarlo alla ditta formalmente intestata al consuocero Biagio Maduli. I “diritti” dei Barbieri su quel lavoro diventeranno infatti oggetto di contenzioso anche fra i clan reggini dei Tegano e De Stefano, da sempre federati e a pieno titolo parte del direttorio della ‘ndrangheta reggina, ma in quel 2008 sempre più divisi. Una situazione di tensione subodorata tanto dai Barbieri – che non a caso tornano a cercare l’intermediazione di Favara – tanto dai Pesce, che cercano in maniera confusa l’interlocuzione con il mandamento centro, che solo la mediazione dell’ambasciatore riuscirà a non far detonare.
UNA VICENDA PARADIGMATICA
Una vicenda che il gip non esita a definire paradigmatica, perché dimostra in primo luogo «l’esistenza di un doppio binario nella gestione della locale organizzazione mafiosa, l ‘uno sottordinato rigidamente confinato nelle dimensioni territoriali della cosca e delle “locali”, l’altro, di livello superiore, costituito da organi di rappresentanza comuni volti a garantire la “struttura” di vertice dell’organizzazione alle cui regole le “locali” devono rigidamente uniformarsi». Un secondo livello individuato dal procedimento Meta, nelle cui motivazioni il collegio ha affermato l’esistenza di un “direttorio” reggino di vertice per il mandamento centro in grado di condizionare le decisioni di sistema, che «cogestisce e condivide in una struttura di maggior respiro il potere ‘ndranghestico con i maggiorenti delle cosche dei rimanenti mandamenti, servendosi anche della capacità di infiltrazioni in contesti istituzionali e di elevata qualificazione». Un mandamento che – sebbene abbia in larga parte rinunciato a riti e rituali ancora presenti nelle altre zone – proprio quest’indagine dimostra legato in maniera inscindibile al resto delle ‘ndrine calabresi.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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