Il ruolo di Matacena secondo i pentiti
REGGIO CALABRIA Chiamato in aula, per la legge dettata dal codice, il vicequestore Leonardo Papaleo non può riferire se non in sintesi quanto messo agli atti dai pentiti sull’ex parlamentare di Forza…

REGGIO CALABRIA Chiamato in aula, per la legge dettata dal codice, il vicequestore Leonardo Papaleo non può riferire se non in sintesi quanto messo agli atti dai pentiti sull’ex parlamentare di Forza Italia, Amedeo Matacena. Saranno i collaboratori – se la loro testimonianza sarà ammessa a dibattimento – a dover confermare le loro precedenti deposizioni. Ma nell’informativa su cui Papaleo è stato chiamato a deporre, ci sono elementi fondamentali che si integrano e completano il quadro accusatorio disegnato dal pm Giuseppe Lombardo, per il quale l’estrema disponibilità della rete di personaggi dalle amicizie influenti e dalle relazioni importanti, chiamata a vario titolo a collaborare al piano di “salvare” Matacena dal carcere, garantendone al contempo la piena operatività, si deve fondamentalmente a una cosa sola: l’ex parlamentare di Forza Italia sarebbe la “stabile interfaccia della ‘ndrangheta, nel processo di espansione dell’organizzazione criminale, a favore di ambiti decisionali di altissimo livello”.
Il ruolo di Matacena secondo i pentiti
Un ruolo che sembra andare ben oltre quello del concorrente esterno per cui l’ex parlamentare di Forza Italia è già stato condannato ed emerge non solo dai disperati tentativi che un network composito di nomi noti e personaggi di peso della politica, della finanza e dell’imprenditoria italiana mette in atto per salvaguardarne libertà e operatività, ma anche dalle dichiarazioni di diversi pentiti, non solo calabresi, le cui dichiarazioni sono oggi agli atti dell’inchiesta “Breakfast”, ma che in futuro saranno chiamati a ripetere in aula. Dichiarazioni come quelle del collaboratore Umberto Munaò, che già in passato ha sottolineato che «Matacena non intendeva pagare la quota cioè il cinque per cento che avevamo chiesto, perché dice: “Io sono amico vostro, e soldi non ve ne do”. Ricordo che c’è stata una discussione in merito, perché da parte di Rosmini c’era l’interesse a non insistere, per il pagamento di Matacena, in quanto una volta incontratomi con Totò Rosmini, che era anche latitante, dice: “Non possiamo insistere, perché a noi ci ha sempre favorito, a noi ci favorisce, ci aiuta se abbiamo bisogno, non possiamo forzarlo a darci i soldi”, dice: “Cerchiamo di farli uscire in un modo diverso”, anche perché comunque alla parte avversa dovevamo dare conto di quella che era nel totale, la percentuale. Quindi o la tiravamo fuori noi dalle nostre tasche, o la facevamo uscire dai vari lavori che erano cemento, ferro, e roba varia, no?». Un lusso che in pochi, se non nessuno, a Reggio Calabria poteva permettersi, ma forse trova spiegazione nel ruolo – storico – che la famiglia dell’ex politico armatore ha avuto a Reggio Calabria. Un ruolo che emerge con prepotenza da quanto messo a verbale dal collaboratore Franco Pino, storico elemento della ndrangheta catanzarese per il quale Matacena nel tempo ha avuto anche «incontri diretti, finalizzati alla risoluzione e alla mediazione in complessi affari» con esponenti di primo piano di cosche operanti nella Piana di Gioia Tauro e nel Catanzarese, dai quali riceveva l’impegno di un pieno appoggio in favore di candidati da lui sostenuti e a lui vicini in occasione di tornate elettorali, ma soprattutto dalle dichiarazioni del collaboratore Pasquale Nucera, confluite nell’inchiesta della Dda di Palermo “Sistemi criminali”.
Matacena e quella riunione a Polsi
Ai magistrati di Palermo, Nucera riferisce di una importantissima riunione a Polsi avvenuta nel settembre ’91 e convocata per discutere quel “piano politico criminale” con cui in quegli anni – appuntano nella richiesta di archiviazione i pm palermitani – un grumo di potere formato da ‘ndrangheta, Cosa nostra, massoneria, servizi deviati ed eversione nera, progettava di “conquistare il potere politico, abbandonando i vecchi politici collusi che non garantivano più gli interessi mafiosi, e facendo ricorso ad uomini nuovi per formare un partito che fosse espressione diretta della criminalità mafiosa, da portare al successo elettorale attraverso una campagna terroristica. Tale ‘campagna’ si sarebbe realizzata in due fasi: nella prima sarebbero stati eliminati alcuni esponenti dello Stato molto importanti, perché impedivano alla mafia di incrementare il proprio potere; nella seconda si sarebbe passato a destabilizzare, mediante la strategia del terrore, ‘il vecchio potere esistente’, allo scopo di raggiungere il fine politico prefissato”. Un piano che secondo Nucera sarebbe stato discusso a Polsi in quel settembre del ’91, alla presenza di Giovanni Di Stefano, sedicente avvocato oggi in carcere in Inghilterra per truffa, ma in passato al centro di storie e traffici in odor di mafia e servizi tra l’Italia e i Balcani. “Di Stefano – ha dichiarato Nucera – disse che bisognava appoggiare il nuovo “partito degli uomini” che doveva sostituire la D.C. in quanto questo ultimo partito non garantiva gli appoggi e le protezioni del passato. Alla predetta riunione erano presenti tutti i vari esponenti dei locali della “‘ndrangheta”. Tra gli altri erano presenti Pasquale e Giovanni Tegano, Santo Araniti, uno dei Mazzaferro di Taurianova e uno dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, che abitava vicino il cimitero, Marcello Pesce, uno dei Versace di Polistena, uno dei Versace di Africo,parente di un certo Giulio Versace, Antonino Molè, il cui cugino fa lo spazzino, due dei Piromalli, Antonino Mammoliti e altri. Era presente, seppure defilato, Matacena junior “il pelato”, appartato con Antonino Mammoliti di Castellace”.
Alessia Candito
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