A questo Paese non piace il suo sud. Non lo vuole. Nonostante i periodici annunci sul «rilancio del Mezzogiorno unico volano per la crescita dell’intero Paese», la cronaca dimostra che la classe politica – tutta – non perde occasione per fare l’esatto contrario. E non solo nella declinazione strabica degli ormai di prassi annunciati – e quasi mai realizzati – programmi miopi di politica economica o di rilancio (inesistente) delle infrastrutture di base. A dare il metro di cosa pensi davvero questo Paese del suo Sud e della Calabria sono stati due avvenimenti,che almeno formalmente, poco o nulla hanno a che fare l’uno con l’altro, ma in realtà rispondono entrambi alla medesima logica: i David di Donatello e il concorsone Rai.
Il film Anime nere di Francesco Munzì, tratto dall’omonimo libro di Gioacchino Criaco, ha fatto strage di statuette – nove, fra cui miglior film, regia, sceneggiatura e migliori produttori – con gran soddisfazione della politica calabrese –tutta – che in note più o meno auliche (e/o sgrammaticate) ha celebrato «l’affermazione della Calabria».
L’affermazione della Calabria? Ma siamo proprio sicuri? È quella di Munzì la regione che a vario titolo pretendono o aspirano a governare? Se gli stessi da cui tali affermazioni provengono non fossero periodicamente protagonisti della cronaca giudiziaria – e di certo non come vittime di ‘ndrangheta – insieme a amici, correligionari e grandi elettori in odor di clan, ci sarebbe da ridere. Invece c’è solo da preoccuparsi.
Le ‘ndrine protagoniste di Anime nere – divise fra una pippata di coca e una mangiata di capretto e soppressata – sono la riduzione a macchietta di un cancro che da decenni divora la regione, il Paese e che in tutte le occasioni che contano si è dimostrato più lungimirante delle intellighenzie (presunte) politiche ed economiche, anticipandole regolarmente nelle determinazioni e preparando il proprio margine di profitto per tempo. Ma tutto questo nel “film che celebra la Calabria” non c’è.
Ci sono vecchie che piangono, sputano o cucinano, uomini in nero che si esprimono in una lingua incomprensibile, impegnati o a mangiare (quello che le vecchie cucinano) o ad ammazzarsi, sullo sfondo – questo sì – di immagini da cartolina, che poco hanno a che fare con la cementificazione di quegli stessi panorami promossa o permessa da quella stessa politica entusiasta del «migliore omaggio che si potesse fare alla Calabria». Per rubare le parole a un magistrato sconcertato «se la ‘ndrangheta fosse solo questo ci metterei la firma» . Certo, un film difficilmente può tradurre in poche scene la complessità di uno spaccato sociale controverso, tuttavia appare davvero troppo riduttivo inchiodare la Calabria alla trimurti sangue-capre-coca. C’è troppo di più.
Ma alla politica locale va bene – vedi mai che fra una passerella e i floreali omaggi dell’antimafia da jet set non riesca a trovare quella verginità perduta fra nomine ingiustificabili e voti in odor di clan – e quella nazionale, che dietro certe manifestazioni culturali si muove, si può mostrare tanto”progressista” nel «promuovere la cinematografia di una regione che vuole dire qualcosa di più». Già, ma di certo non con Anime nere. E di certo non quello o non solo quello che Anime nere racconta.
D’altra parte, l’affermazione del film dice tanto di come la regione e la sua gente viene considerata: una terra complicata, lontana dal vivere civile, in cui genti dagli usi tribali vivono col coltello fra i denti, e a cui inevitabilmente sono costrette a tornare nonostante i tentativi di emancipazione. Bella come immagine della Calabria. Edificante.
Del resto non diversa è la concezione del Sud e della Calabria che emerge dalla gestione del concorsone Rai. Dopo decenni, la televisione di Stato ha bandito – dopo 13 mesi di gestazione e con 20 giorni di preavviso – una nuova selezione pubblica per 100 aspiranti giornalisti destinati a ingrossare le file del precariato Rai, cristallizzato in una graduatoria da cui, nei prossimi tre anni, potranno essere pescati per contratti a tempo determinato di tre mesi. Niente posto fisso, ma in tempi di Jobs act già questo sembra grasso che cola. Soprattutto al sud e in Calabria, regione in testa alle classifiche per cronisti minacciati, snobbata dai grandi giornali che qui si sono sempre ben guardati dall’aprire una propria costola locale, dove trionfa il pagamento a rigaggio e cinghiali e stampatori si possono permettere il lusso di chiudere un giornale per fare fuori redazioni scomode, per poi aprirne un altro con un’accurata selezione di chi di quelle stesse redazioni si adegua al nuovo corso. Un quadro triste in cui le alternative per vivere dignitosamente sono poche. Ma arriva mamma Rai!!!! Gaudium magnum, dopo 25 anni c’è il primo concorso!
Peccato che la selezione si faccia a Bastia Umbra.
E che è Bastia Umbra? Wikipedia la definisce «comune di 21.965 abitanti della provincia di Perugia in Umbria, situato nella Valle Umbra, tra Perugia ed Assisi, lungo il fiume Chiascio». Traduzione, un buco di paese a 20 chilometri da Perugia, che vedrebbe la sua popolazione aumentare di un quinto se si presentassero tutti i nuovi aspiranti precari Rai. Per arrivarci da sud – dice Umbriafiere che ospiterà la selezione – c’è la superstrada E45 Orte- Cesena, ci sono un paio di regionali o interregionali con partenza da Roma o Perugia, un pullman, con partenza da Roma Fiumicino. Ma per chi viene da sud il problema è arrivarci a Roma, a Orte o a Perugia.
La Rai – braccio mediatico di quegli stessi governi responsabili del siderale ritardo infrastrutturale della Calabria – sembra aver dimenticato che la tratta ferroviaria da Napoli in giù sia stata di fatto cancellata da Ferrovie dello Stato, che le autostrade sono mulattiere interrotte da viadotti sbriciolatisi come grissini e che gli aeroporti sono più o meno una barzelletta, dunque trasforma la selezione per i suoi aspiranti precari in una versione aggiornata di Giochi senza frontiere,programma per famiglie che negli anni Novanta proponeva in prima serata le sfide più o meno acrobatiche delle squadre di diversi paesi. Sì che il vintage va di moda, ma questo sembra davvero un tantino eccessivo. O forse semplicemente della gente del sud mamma Rai sente di non aver bisogno, quindi promuove un processo di selezione geografico, ancor prima che meritocratico.
Per chiedere l’annuale dazio del canone, qualche anno fa la tv pubblica minacciava “la Rai sei tu”. Ecco, fossi io, comincerei a rivolgermi ad un professionista bravo in grado in grado di curare una manifesta schizofrenia, condita anche da insana ipocrisia. Con la consapevolezza che per quest’ultima – purtroppo – non c’è rimedio.
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