REGGIO CALABRIA L’ex parlamentare di Forza Italia, da tempo latitante a Dubai, Amedeo Matacena, non era l’unico personaggio in odor di mafia che l’ex ministro Claudio Scajola potesse annoverare fra i suoi contatti. Al contrario – rivelano le informative della Dia riferite oggi in aula dal supertestimone dell’accusa, il vicequestore aggiunto Leonardo Papaleo – tanto nelle vesti di ministro, come nelle vesti di decano di Forza Italia in Liguria, Scajola ha finito per avere a che fare con personaggi che vengono considerati vicini ai clan. Per questo, fra le informative agli atti del processo che lo vede imputato insieme alla moglie di Amedeo Matacena, Chiara Rizzo, lo storico braccio destro Martino Politi e la segretaria dei coniugi, Maria Grazia Fiordelisi, sono finite tanto le risultanze investigative che testimoniano la presenza della ‘ndrangheta nel Ponente Ligure e nel Porto di Imperia che quelle relative al reinvestimento nell’eolico dei capitali di Matteo Messina Denaro.
GLI SCIVOLOSI ENDORSEMENT DI CLAUDIO SCAJOLA «Nel Ponente Ligure non solo esiste una ‘ndrangheta seria e potente, ma vi è un massiccio condizionamento degli enti locali, attraverso appoggi elettorali a vari politici della zona. I personaggi in questione, i cui nomi hanno riguardato l’inchiesta “La svolta”, sono Alessio Saso, Giovanni Bosio, Maurizio Zoccarato, Gaetano Scullino, Vincenzo Moio, Roberto D’andrea, Tito Giro, Armando Biasi, Francesco Seva e Giovanni Solinas. Tutti questi personaggi sono politicamente vicini a Claudio Scajola». Papaleo è lapidario nel riferire nel riferire gli esiti delle indagini “Maglio” e “La Svolta”, che documentano i contatti dell’ex ministro con politici quanto meno chiacchierati. Ha rischiato molto di più l’ex sindaco di Ventimiglia Gaetano Scullino, che per la Dia nel giugno 2011 aveva rassegnato le dimissioni verosimilmente al fine di evitare che fosse inviata una commissione di accesso, come già successo a Bordighera. Una misura che arriverà comunque per il parlamentino della città ligure per decisione dell’allora ministro Annamaria Cancellieri, salvo poi essere revocata dal Tar, mentre l’ex sindaco uscirà assolto dal processo che lo vedeva imputato con l’accusa di aver riservato un trattamento di favore alla Marvon, cooperativa grande mattatrice di appalti in realtà in mano ai massimi esponenti del locale di Ventimiglia. Tuttavia – spiega in aula Papaleo – «le infiltrazioni della criminalità organizzata nei vari comuni, come quello di Ventimiglia, sono state imponenti con le conseguenti pressioni elettorali nei vari enti locali». Del resto, annota la Dia nell’informativa agli atti dell’inchiesta, «alle elezioni amministrative del 2007, il locale di Ventimiglia aveva sostenuto Moio Vincenzo e quindi la lista di Scullino Gaetano che, grazie anche a quei voti, era stato poi eletto sindaco». Eppure proprio nei giorni neri della bufera giudiziaria, l’ex ministro Scajola si preoccupa di rincuorare Scullino – suo vecchio discepolo – promettendogli addirittura una collocazione futura.
I CONTATTI CON GLI ALTRI POLITICI Ma l’ex sindaco di Ventimiglia non è l’unico politico chiacchierato, indagato o imputato con cui Scajola fosse in rapporti. Al contrario, dice la Dia passando in rassegna le indagini “La Svolta” e “Maglio” della Dda di Genova, sono numerosi gli amministratori che secondo i magistrati la ‘ndrangheta avrebbe utilizzato per condizionare gli enti locali – Giovanni Bosio, Maurizio Zoccarato, Armando Biasi – con cui Scajola sarebbe stato in varia misura in contatto. Per Di Biasi, la Dia ricorda ad esempio che sarebbe stato lo stesso Giuseppe Marcianò – ritenuto il capo dell’omonimo clan di Ventimiglia, considerato espressione dei Piromalli di Gioia Tauro e per questo condannato a 16 anni di carcere – a presentarlo a Scajola, definendolo un ragazzo d’oro. È lo stesso boss a confermare – in una conversazione intercettata- che il ministro era un suo cliente abituale: «Non so se mi capite, quando ha fatto il pranzo Boscetto … quando è venuto Scajola, quando è venuto Saso quando .. avete capito quella la Barabino (Barabino Cristina assessore della Provincia di Imperia) c’erano anche loro!». Un dato investigativo importante, sottolinea Papaleo, «perché certifica da un lato i rapporti tra Scajola e Marcianò, dall’altro i rapporti di Di Biasi con Marcianò». Non è dato sapere se frequentasse quel posto, ma di certo era in contatto con Marcianò anche Maurizio Zoccarato, ex sindaco di Sanremo e uomo di fiducia di Scajola, su cui si legge negli atti: «Nelle conversazioni intercettate, emerge che Marcianò Giuseppe ha una grande stima arrivando a definirlo “questo è della nostra famiglia” e lo consideri una persona avvicinabile e disponibile».
GRANDI OPERE PERICOLOSE Ma le conversazioni finite agli atti dell’inchiesta “La Svolta”, continua a spiegare in aula Papaleo, hanno anche svelato come sul Porto di Imperia – megaopera immaginata da Claudio Scajola sindaco e realizzata su impulso dello stesso politico quando già era transitato nei più comodi uffici del ministero – abbiano banchettato diversi clan di ‘ndrangheta. Un particolare confermato da conversazioni e riscontri incrociati finiti agli atti dell’inchiesta “Breakfast”, che non solo chiamano in causa direttamente l’ex ministro come «dominus della costruzione» dell’opera, ma dimostrano anche che più di una ditta in odor di mafia ha partecipato alla sua costruzione. Un dettaglio in parte già emerso nell’indagine “Pioneer” della Procura di Torino – in larga parte richiamata nell’informativa redatta dalla Dia reggina alla base di “Breakfast” – che nel 2008 si era concentrata sui rapporti fra Scajola e imprenditori nella migliore delle ipotesi ambigui, invitati direttamente o indirettamente a partecipare al gran banchetto del porto di Imperia. Si tratta di Ilario D’Agostino – arrestato e condannato perché accusato da diversi pentiti di essere il contabile del clan torinese guidato da Antonio Spagnolo, per il quale gestiva in Piemonte imprese edili al fine di riciclare i proventi del narcotraffico – e Brunino Pace, «storica conoscenza di D’Agostino» – lo definisce Papaleo – che con lui spesso ha lavorato in cordata. Condannato per bancarotta nel 2007, Pace – rivela in aula il vicecommissario capo – ha continuato ad operare tramite imprese formalmente intestate alla moglie o a soggetti legati da stretti rapporti di parentela, come il cognato Giuseppe Tassone. Imprese tramite cui Pace, sempre in tandem con D’Agostino, entrerà nell’affare Porto di Imperia.
L’AMICO CALTAGIRONE Un’occasione colta al volo – suggeriscono gli investigatori – grazie alla conoscenza personale con Francesco Bellavista Caltagirone e Beatrice Parodi, tramite proprie imprese soci di maggioranza della società committente, Porto di Imperia Spa, controllata per il rimanente 33,33% dal Comune di Imperia. Ma anche in questo caso – sottolinea la Dia – Pace «pur dimostrando di possedere capacità imprenditoriali e professionali nettamente superiori a quelle di D’Agostino, ha sovente rimesso a quest’ultimo la decisione finale in tema di acquisizione di ulteriori nuovi lavori, manifestando quindi un deciso rapporto di sudditanza nei confronti del medesimo». Una subordinazione che permetterà alle imprese direttamente o indirettamente riconducibili a Pace – che non verrà rinviato a giudizio – di subappaltare lavori e cantieri alle ditte di D’Agostino, di lì a qualche anno anche destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare nell’inchiesta “Minotauro”.
PAGAMENTI A CASCATA Un business di cui i due non si preoccupano di parlare al telefono se è vero che, dal maggio 2008, gli uomini della Dia iniziano infatti a registrare una serie di chiacchierate, durante le quali l’imprenditore si vanta di essere stato contattato dalla segretaria del ministro Scajola. Un nome che susci
ta l’attenzione di chi ascolta, le cui curiosità saranno soddisfatte solo nel giro di un paio di giorni. Nel corso di una conversazione con il socio Maurizio Panaia, Pace lo informerà infatti che «io oggi è difficile che vengo perché mi ha chiamato il Ministro Scajola che vuole parlarmi, che ho un appuntamento alle 3 e mezza, non lo so, mi parla del Porto di Imperia e di altre cose». Nonostante non si registrino contatti diretti fra i due, per gli investigatori si tratta di una traccia importante non solo perché conferma i rapporti fra l’ex ministro e un imprenditore dietro cui si muovono ditte che in seguito saranno confiscate per mafia, ma anche perché dimostra il pervicace interessamento del politico per un’opera su cui – quanto meno in teoria – non avrebbe dovuto avere alcuna facoltà di opinare ed operare.
I CONSIGLI IMPRENDITORIALI DEL BOSS MARCIANÒ Ma le ditte di D’Agostino, in seguito finite tutte sotto sequestro, non sono le uniche società in odor di mafia ad aver lavorato alla costruzione del porto di Imperia. All’appello risulta anche la Scavo-ter – nota impresa di costruzioni oggi colpita da interdittiva antimafia, ma in passato grande mattatrice di appalti pubblici in Luguria – riferibile alla famiglia Fotia, da tempo al centro di diversi filoni di indagine per corruzione, truffa, smaltimento illecito di rifiuti e altri reati. Stando a quanto emerso nel procedimento La Svolta, a ordinare che la Scavo-ter fosse tra le imprese chiamate a lavorare sul porto di Imperia sarebbe stato il boss Giuseppe Marcianò in persona, considerato boss del Ponente ligure e capo della locale di Ventimiglia. Ascoltato dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Imperia, il boss parla dei lavori al Porto di Imperia con uno dei suoi accoliti, Ignazio Sottile, cui chiede – sintetizzano gli investigatori – «chi siano i calabresi che avevano lavorato al Porto di Imperia che hanno l’impresa. Sottile risponde che si tratta dei Pellegrino, Marcianò G. specifica che si tratta di uno di Cipressa ma che non ricorda il nome. Sottile suggerisce possa trattarsi di Fotia». Un dettaglio su cui inizialmente il boss sembra un po’ dubbioso, anche se poi riconosce: «Una volta lo hanno fatto un po’ di lavoro che l’ho mandato io a Fotia al porto (…inc…) capisci… appena hanno fatto… incominciarono il porto l’ho mandato da una parte ed è andato a fare qualche lavoro(…inc…)pure a Ospedaletti».
«FEEDBACK DA SCAJO?» Ma a complicare la posizione dell’ex ministro è anche una fitta corrispondenza che ha permesso a inquirenti e investigatori di scoprire le strane relazioni fra l’azienda di energie alternative Fera, l’ex parlamentare di Forza Italia, all’epoca già condannato per mafia, Amedeo Matacena, e lo stesso Scajola, all’epoca titolare proprio della delega alle Attività produttive. Relazioni che pesano 5,9 milioni di euro e corrispondono al finanziamento che l’azienda milanese “Fera srl” ha ricevuto per il progetto “Freesun per la Liguria” nel gennaio 2009, proprio quando a gestire i milionari investimenti per l’innovazione tecnologica legati al decreto Industria 2015 era l’ex ministro Claudio Scajola. Un fiume di danari che per anni ha alimentato l’universo delle aziende che si occupano di energia alternativa e che gli uomini della Dia hanno visto affiorare anche in una serie di messaggi telematici fra Cesare Fera, presidente dell’omonima azienda, la “Fabbriche Energie rinnovabili alternative srl”, e Alberto Acierno, ex deputato prima del Popolo delle Libertà, poi di Forza Italia, approdato nel 2001 al consiglio regionale siciliano grazie al listino dell’allora presidente Salvatore Cuffaro, prima di inciampare a fine 2009 in un’indagine per peculato. Acierno è consulente della Fera con ampie deleghe e a lui il patron scrive per chiedere esplicitamente: «La settimana prossima definiscono le graduatoria per i progetti presentati a Industria 2015 lo scorso settembre. Sappiamo che abbiamo superato la prima selezione che da 80 ha portato a 24 i progetti ammissibili. Ne passeranno solo 8-10. Hai più avuto feedback da Scajo?». Ansie destinate a finire poco più di dieci giorni dopo, quando alla Fera – come velatamente anticipato da Matacena, che con Acierno lavora a stretto contatto – verrà comunicata ufficialmente l’aggiudicazione di un contributo di 5,9 milioni dal ministero dello Sviluppo economico per la realizzazione del progetto Free Sun, mirato a studio, progettazione e costruzione di impianti basati sulla tecnologia solare termodinamica a concentrazione (Csp, Concentrated solar power)». Ufficialmente non c’è logica ragione che giustifichi la certezza con cui Matacena distribuisce rassicurazioni, tanto meno uno straccio di contratto che chiarisca il rapporto dell’ex politico armatore con la Fera, eppure mettono nero su bianco gli investigatori in una delle informative agli atti del procedimento “Breakfast” – fra i due esistono consolidati «rapporti economico- finanziari». Non a caso – si legge in quelle carte – la presenza di Matacena verrà registrata in una serie di riunioni dentro e fuori dall’azienda, facendo saltare i nervi a uno dei soci di minoranza, Luca Salvi, all’epoca dei fatti entrato da poco in azienda e – probabilmente – già pentito della cosa. Anche perché, in passato, la Fera aveva già avuto qualche problema.
SCIVOLONI SICILIANI Negli anni passati, l’azienda milanese è inciampata infatti in almeno due delle inchieste con cui la Dda di Palermo ha voluto approfondire cosa realmente si muova attorno al business dell’eolico in Sicilia. Nessuno dei vertici dell’azienda è mai stato indagato, tuttavia è dagli atti dell’inchiesta “Eolo” che emerge che è Pino Sucameli in persona – uomo d’onore del clan Tamburello, ammesso alla tavola del potente capo cosca Mariano Agate, prima dell’arresto per mafia anche capo dell’ufficio tecnico del Comune di Mazara – a difendere gli interessi della Fera tuonando «è cosa nostra», quando il costruendo parco eolico “Vento di vino” entra in rotta di collisione con un analogo progetto sponsorizzato da una cordata di politici e mafiosi. Sarà invece l’inchiesta “Eden” a far registrare lo stato di fibrillazione di Sebastiano Falesi – proconsole della Fera in Sicilia – quando le aziende direttamente riconducibili ai familiari di Matteo Messina Denaro tentano di accaparrarsi la gestione del cantiere in subappalto. Da entrambe le inchieste, l’azienda milanese e i suoi uomini usciranno puliti, ma sulla Fera rimarrà sempre un’ombra di ambiguità, sintetizzata nella definizione con cui viene bollata dalla Dda di Palermo che la definisce «società sponsorizzata da Cosa nostra».
UNA SIGNIFICATIVA MADRINA Nonostante questo, l’ex ministro Scajola e il suo entourage non sembrano aver avuto perplessità a mantenersi in contatto con la società. Non a caso, sarà proprio Maria Teresa Verda – la moglie di Scajola – a fare da madrina all’inaugurazione del parco eolico della Rocca, costruito proprio dalla Fera srl nel comune di Pontinvrea, in provincia di Savona. Uno dei tanti impiantati dall’azienda in Liguria – dicono i dati raccolti dagli investigatori della Dia – anche grazie alla «particolare apertura di soggetti politici liguri a costruire parchi eolici per la produzione di energia elettrica nonostante attuali studi scientifici qualificati certifichino l’assenza delle necessarie condizioni di vento utili a rendere vantaggiosa l’implementazione di simili strutture». Per gli investigatori, la storia industriale dell’azienda è uno zibaldone di irregolarità e artifizi, grazie ai quali la Fera avrebbe ottenuto «cospicui finanziamenti da Stato, Regione Liguria ed istituti di credito (…) attraverso un congiunto dei titolari della “Fera srl” operante in territorio elvetico». Circostanze – sospettano gli inquirenti – che potrebbero non essere estranee alla «presunta ingerenza nel settore di esponenti politici liguri tra cui il consigliere regionale Guccinelli Renzo e l’ex ministro
Scajola Claudio».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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