Come molte cose italiane, anche il dibattito sull’annunciata riforma delle intercettazioni e delle regole per la loro diffusione, sta conoscendo un
andamento carsico. Oggi se ne riparla per via dell’incidente (tale lo consideriamo perché appare chiaro che la telefonata Crocetta-Tutino. semplicemente non esiste) occorso al settimanale l’Espresso. E’ servito, l’incidente, a far passare in commissione un emendamento-bavaglio alla legge sulle intercettazioni che si spinge fino alla repressione carceraria.
Inevitabile affrontare il toro per le corna. Lo facciamo seguendo due aspetti molto pragmatici e strappando il dibattito agli eccessi surreali che sta conoscendo in questi giorni.
Entriamo subito a gamba tesa: ma non doveva pensarci la Commissione Gratteri? E infatti ci ha pensato giacché il governo ha a sua disposizione una proposta formulata in quella sede. Il magistrato che Matteo Renzi avrebbe voluto come ministro della Giustizia propone un ampio intervento sulle intercettazioni, compreso il divieto di pubblicazione di quelle considerate «irrilevanti» per la formazione della prova, con la previsione di multe salate e del carcere per chi lo viola. Non basta, quella ipotesi di riforma impone a pubblici ministeri e giudici un divieto esplicito: nelle richieste e nelle ordinanze d’arresto non potranno inserire i testi integrali dei colloqui registrati, salvo che la trascrizione completa non abbia una diretta relazione con il capo d’imputazione.
È una esagerazione, può darsi, ma non imputabile a noi visto che la commissione Gratteri ha anche predisposto il mezzo tecnico per contenere e
reprimere le “scorrerie” giornalistiche che tanto fastidio danno alla politica. Si tratta di un nuovo articolo del codice penale, il numero 595 bis,
da inserire subito dopo il 595 che punisce la diffamazione. Il reato dovrebbe chiamarsi «pubblicazione arbitraria di intercettazioni», e prevede che chiunque pubblichi o diffonda con qualsiasi mezzo i testi di intercettazioni o altre forme di comunicazione «acquisite agli atti di un procedimento penale», il cui contenuto «abbia portata diffamatoria e risulti manifestamente irrilevante ai fini di prova», venga punito con una sanzione da 2.000 a 10.000 euro, o con la detenzione da due a sei anni.
Chiaro a tutti?
In verità la norma ipotizzata, ancorchè lasciata a prendere polvere dal marzo scorso, è anche un po’, come dire, ipocrita e ambigua visto che lascia al giornalista sia la valutazione della «portata diffamatoria» delle conversazioni sia la sua rilevanza penale. Inoltre, come ebbe subito a
sottolineare sul Corriere della Sera Giovanni Bianconi, vietando tout court la diffusione di ciò che non è contenuto nelle ordinanze d’arresto e
nelle relative richieste, ma è tuttavia contenuto in atti a disposizione degli avvocati — e dunque non più segreti — si impedirebbe di rendere noto
anche conversazioni che, pur non utili alla individuazione di un reato, potrebbero avere comunque un interesse pubblico.
Nel tentativo di rendere più digeribile una svolta che resta reazionaria e con dubbi profili costituzionali, si disse, e si ripete oggi, che l’obiettivo è difendere la privacy delle persone che entrano in contatto con gli inquisiti, ma è evidente che ogni intervento su questa materia va a incidere sia sulla discrezionalità del magistrato, nella valutazione degli indizi derivanti dalle intercettazioni, che dei cronisti.
Il fatto, poi, che a scrivere la norma sia una Commissione presieduta da un Pubblico ministero di larga e provata esperienza, coadiuvato da altri
pubblici ministeri, emerge con chiarezza dal fatto che alla dura contrazione delle libertà degli operatori dell’informazione fanno da contrappasso
più ampi spazi di manovra per i magistrati inquirenti. Lo prova il fatto che l’ipotizzata norma, oltre a prevedere una forte dilatazione dei tempi e
dei modi di esecuzione delle intercettazioni, introduce anche una nuova forma di «intercettazione epistolare», sempre previa autorizzazione del
giudice, parificando le lettere ai colloqui registrati. In questo modo si potrebbe venire a conoscenza del contenuto delle lettere in maniera clandestina, facendole recapitare regolarmente senza che il destinatario sappia che quella corrispondenza, prima di giungere nelle sue mani, lungo il tragitto è stata bloccata, letta e interpretata, prima dalla polizia giudiziaria e poi dai magistrati.
Fermiamoci qui, sul fronte della riforma ipotizzata dalla Commissione Gratteri, e veniamo ad oggi. Il colpo di mano in Commissione, l’iniziale
assenso del Pd ed il successivo ripensamento con l’invito alla calma del ministro Guardasigilli Orlando, stanno creando le condizioni per, come
dire, buttarla in caciara e quindi paralizzare il percorso parlamentare e far tornare in auge proprio la proposta contenuta nella relazione che
Gratteri ha consegnato, ormai da mesi, a Matteo Renzi.
Di questo, però, nessuno sembra essersi accorto e il dibattito, anche quello autorevole tra i direttori dei maggiori giornali italiani, scivola sui
“massimi sistemi”. Del resto pochissimi sono i direttori che arrivano dalla “giudiziaria”, quasi tutti dal desk della politica. Da quella angolazione è chiaro che ci si preoccupi più della “democraticità” della norma e delle ricadute sul ruolo (e le responsabilità penali) di chi è direttore responsabile e non già del cronista che sta nei tribunali, segue le inchieste e deve divorare interi fascicoli processuali per stare sul pezzo.
Mi candido a coprire questo vuoto.
Lo faccio riportando nella “banalità” terrestre il grande e forbito dibattito tra intellettuali di questi giorni.
Proviamo a stabilire una separazione se non delle carriere (che oggi molte carriere di giudici sono legate a quelle di privilegiati giornalisti), dei doveri. Il cronista ha il dovere di pubblicare tutto quello di cui viene lecitamente in possesso, badando solo al vincolo di autenticità della notizia e dei documenti dai quali attinge. Se uno o più atti debbono essere segreti sul rispetto di quel segreto non è il cornista a dover vigilare
ma chi ne ha il legittimo possesso. Sono il magistrato, il funzionario di cancelleria, l’agente di polizia giudiziaria che debbono impedire che
carte non pubblicabili o, peggio, segrete finiscano in una redazione. Se ci finiscono chi le ha deve, “deve” e non “può”, pubblicarle. Tutto qui!
Su questo terreno abbiamo grande nostalgia del Nicola Gratteri prima versione, quando cioè senza essere incaricato dal Governo, mise a punto un
sistema di tracciabilità delle intercettazioni che avrebbe impedito, e impedirebbe, qualsiasi fuga o almeno consentirebbe di individuare quale
“servitore infedele” ha passato le carte e violato il segreto.
Era un sistema che avrebbe anche contenuto in maniera spaventosa la spesa che oggi si affronta per esternalizzare le intercettazioni, ne avrebbe
garantito la genuinità (nessuno ne parla ma molti processi saltano per trascrizioni infedeli che tali si dimostrano dopo una nuova esamina da parte
dei collegi giudicanti), impediva pericolose triangolazioni magistrato inquirente-agente di Pg-avvocato difensore.
Una riforma semplice, utile, attuabile in poche settimane. Troppi interessi, però, ne uscivano fortemente ammaccati, meglio cambiar rotta. Gratteri
è bravo? Allora perché “sprecarlo” per mettere ordine alle intercettazioni, facciamogli riscrivere tutto il codice, tutti i codici, anzi tutti i codici e tutti i regolamenti. Come quel vecchio volpone di procuratore generale che al capo dell’irrequieto Pm Giovanni Falcone consigliava: non togliergli via il fascicolo, al contrario dagli altri 100 fascicoli, anzi meglio mille, fallo affogare tra i fascicoli.
direttore@corrierecal.it
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