La Calabria non è (solo) quella che racconta della Loggia
È passato quasi inosservato l’editoriale che Ernesto Galli della Loggia ha dedicato, domenica sulla prima pagina del “Corriere della Sera”, al Mezzogiorno e all’impegno, periodicamente ribadito da tu…

È passato quasi inosservato l’editoriale che Ernesto Galli della Loggia ha dedicato, domenica sulla prima pagina del “Corriere della Sera”, al Mezzogiorno e all’impegno, periodicamente ribadito da tutti e regolarmente mai rispettato da alcuno, a varare un’agenda di interventi capaci di promuoverne lo sviluppo.
Della Loggia è apparso preoccupato di ammonire tutti che «lo Stato non è solo le sue risorse economiche, i finanziamenti pubblici. Lo Stato è anche la legge e i diritti eguali. Cioè il contrario del dominio degli interessi privati o di clan, il contrario dell’evasione fiscale generalizzata, del clientelismo, della logica della raccomandazione a spese del merito, dello sperpero del pubblico denaro».
Premessa che serve a Galli della Loggia per un ulteriore richiamo: «Ci piacerebbe che i nostri concittadini del Mezzogiorno d’Italia se lo ricordassero e ce lo ricordassero più spesso. E che dunque, ad esempio, fossero loro per primi, i loro deputati, le loro assemblee locali, a chiederci sì più spesa pubblica, ma anche un’azione sempre più energica delle forze dell’ordine, un controllo sempre più incisivo da parte degli organi dello Stato sulla vita sociale delle loro contrade, contro quelli di loro, e Dio sa quanti sono, i quali pensano e agiscono in modo ben diverso. Che contro tutti questi ci chiedessero, loro, più severità, più intransigenza. Perché invece ciò non accade ormai se non rarissime volte?».
Già questo chiama in causa tutti, ancor di più un’altra osservazione dell’editorialista del “Corriere”: «Il problema del Mezzogiorno, del suo mancato sviluppo, non è anche questo silenzio della grande maggioranza della società meridionale, a cui da tempo fa eco colpevolmente il silenzio e il disinteresse del resto del Paese? Non è da qui che bisogna allora ricominciare?».
Ecco, nel nostro piccolissimo, non vogliamo far parte di questo “grande silenzio” e farebbero bene a smarcarsi da tale posizione anche quanti hanno doveri di rappresentanza, di militanza politica e di formazione delle classi dirigenti ben maggiori dei nostri.
Ernesto Galli della Loggia sembrerebbe essersi perso qualche puntata della nostra storia moderna. Altrimenti si sarebbe accorto che molte voci si alzarono, negli anni Sessanta e poi negli anni Settanta e ancora oltre, fino alla metà degli anni Novanta, per allertare il resto del Paese sulla grave condizione dello Stato a Sud di Roma. Usarono gli strumenti che avevano: pochissimi, visto che fino agli anni Ottanta la Calabria non aveva un’università, non possedeva alcuna autonomia finanziaria e non contava nessun giornale. Gli inviati scendevano solo per la cronaca giudiziaria, e anche quella era raccontata ad uso e consumo dei lettori del Nord. Ciò nonostante, il consiglio regionale della Calabria, in quegli anni, scriveva pagine importantissime e tutte capaci di indicare la gravità dei fenomeni che erano alle porte e delle “alternative” che si stavano affermando rispetto allo Stato nel “governo del territorio”. La ‘ndrangheta lasciava i campi ed entrava nelle città, scopriva le debolezze dell’ordinamento democratico e ne approfittava. La vecchia classe politica democristiana e socialista veniva spazzata via dai “rampolli” delle famiglie di ‘ndrangheta che entravano in diretto contatto con i big della politica nazionale.
Rilegga Ernesto Galli della Loggia le relazioni finite negli atti dei tre convegni “mafia – Stato – società”, li organizzava il Consiglio regionale quando quella istituzione era povera di competenze e di bilancio ma ricchissima di uomini, nella sua classe politica e nella sua burocrazia. Lì era plasticamente spiegato quel che sarebbe avvenuto nei decenni successivi se la Calabria fosse rimasta nell’isolamento in cui giaceva.
Non è qui lo spazio per approfondire, ma va detto che in quell’attività politica, di studio e culturale si indicava come interi settori produttivi stavano transitando dal mondo dell’economia legale a quello dell’economia mafiosa. L’intero ciclo del cemento, ad esempio; il controllo delle discariche; l’economia boschiva; la rete infrastrutturale della distribuzione del carburante. Un grido di dolore che rimase inascoltato. Presto anche l’amministrazione della giustizia civile sarebbe diventato settore dove le cosche erano unico punto di riferimento per il territorio e i suoi abitanti.
No. Non è vero che tutto questo avvenne nel silenzio dei calabresi. Ci furono stagioni di lotta e di denuncia. Quando Firenze aveva altri sindaci, questi scendevano a Gioiosa Jonica per supportare la lotta dell’indimenticato sindaco Madafferi, assediato dai clan che uccisero Rocco Gatto per imporre un lutto cittadino che i gioiosani non volevano rispettare. Troppi delitti rimasero impuniti e chi si metteva contro il sistema veniva espulso nel silenzio colpevole, quando non politicamente connivente, del Paese intero. Accadde a don Natale Bianchi, sospeso a divinis perché stava con le operaie. Accadde a magistrati di valore, che solo al Nord poterono dimostrare la loro levatura. Un nome per tutti? Guido Papalia, procuratore a Verona. Carlo e Vincenzo Macrì, che pure furono gli autori del primo volume sulla legge “Rognoni-La Torre”. Non andava meglio a questori e prefetti e dei giornalisti non ne parliamo. Del resto, all’epoca essere mafioso non era neanche un reato. E pure sui sequestri di persona lo Stato stabilì che gli italiani non erano tutti uguali: i rapiti di serie “A”, quelli prelevati nel triangolo Torino-Milano-Genova li riportavano a casa tra echi di brillanti operazioni. Quelli “indigeni” morivano come mosche. E le liberazioni non erano certo frutto di lavoro investigativo: in nove casi su dieci pagava lo Stato tramite i servizi. Così i clan ingrossavano forzieri e aumentavano il numero delle “conoscenze istituzionali” da ricattare o da utilizzare.
Stia tranquillo (stavo per dire sereno…) Ernesto Galli della Loggia: queste cose i calabresi le dissero e le urlarono. Ma chi aveva in mano i tasti del megafono, ridusse il volume al minimo fino a trasformare le urla disperate in gracchianti rumori di fondo.
È partito così il grande esodo dei calabresi. Non più braccia per le miniere d’Europa o per gli stabilimenti d’America. Ma media e piccola borghesia, studenti, medici, ingegneri, farmacisti. Nella Locride non vi era farmacista che non fosse stato “ospite” dell’anonima sequestri, chi scampò scappò via. Se vanno via i migliori, con buona pace delle eccezioni che pur vi sono, fatalmente quelli che restano…
Per cui chiedere conto oggi dei fallimenti di una classe dirigente ignorante e incolta – di assessori, sindaci, presidenti, amministratori inadeguati o, peggio, corrotti – segna la beffa dopo il danno. E proprio nel momento in cui i migliori vanno via e i peggiori occupano le istituzioni locali, ecco arrivare competenze e soldi. Nella sanità, soprattutto. Sono gli anni del saccheggio. L’unica norma è quella del «si voliti vui…». Gli anni dei prenditori, da Gioia Tauro, dove lo stabilimento Isotta Fraschini è alla sua ottava cessione dopo sette avventure fallimentari, a Cassano. Da Melito a Lamezia Terme. Da Crotone a Vibo Valentia. E chi a Roma doveva vigilare era compare e amico, quando non anche socio occulto, dei “vigilati”.
E siamo alle condizioni odierne: instabilità politica? Certo, quando trionfa il principio che i voti non si pesano ma si contano. Instabilità culturale? Certissimo, quando i boss dalla latitanza vengono intercettati mentre indicano al professore il voto da dare alla figliola che non ha mai toccato libro. Instabilità economica? Certo, quando la programmazione sta in mano a tecnici con il famiglio impiegato nelle multinazionali della consulenza e dell’impresa.
E gli altri? Quelli che ancora oggi stanno qui e salvano vite umane ma non diventano primari; istruiscono ragazzi che vincono le Olimpiadi della matematica ma non vengono supportati; riconciliano la legalità con il Vangelo ma vengono perseguitati da molte curie. Quelli che onorano la toga rinnovando le vecchie tradizioni dell’avvocatura senza confon
dersi con quelli che la svendono diventando “consigliori”. Quelli che la Giustizia l’amministrano secondo giustizia e non secondo censo. Quelli che fanno con onestà anche il più umile dei mestieri, il portalettere a cui viene bruciata la macchina perché rifiuta di mettere “destinatario sconosciuto” nella notifica al boss. Debbono pagare, secondo Galli della Loggia, due volte il conto? A leggere l’editoriale di domenica parrebbe proprio di sì. Perché quell’editoriale dopo aver espresso le critiche, condivisibili ma non ben spiegate, che abbiamo riprodotto in apertura, usa quelle critiche per giungere al vero punto.
Secondo l’illustre editorialista, Renzi sbaglia a non fare come i suoi predecessori. Il Sud è perso, il Mezzogiorno è solo uno spreco di risorse. È il figlio venuto male da tenere nascosto in casa, al buio.
Scrive della Loggia: «Ho però l’impressione che per tutti questi discorsi il nostro presidente del Consiglio non abbia molto interesse. Che sia assai lontana dal suo pensiero l’idea che per raddrizzare le sorti del Mezzogiorno la prima cosa da fare sia, come io invece credo, riprendere in mano, ricostruire, dove occorra accrescere, la macchina dello Stato, ristabilire il significato culturale e politico dei suoi tradizionali ambiti d’azione, la sua efficienza, la sua capacità di controllo e d’intervento capillare, anche la sua forza repressiva. A Matteo Renzi, piace di più immaginare che costruire l’Alta Velocità fino a Reggio Calabria, questo sì cambierà le cose (ma perché non le ha cambiate la costruzione dell’autostrada? Perché?). Ai miei occhi è la prova che di quella parte del Paese che governa egli non conosce molto, forse non l’ha mai neppure troppo frequentata. Se avesse visto di persona, infatti, anche una sola volta, come gli abitanti e le autorità dell’intera costa che da Maratea va fino a Pizzo hanno ridotto quei luoghi, gli sarebbe venuto almeno il sospetto, sono sicuro, che il suo Frecciarossa non servirà assolutamente a nulla».
Chiaro il concetto: prima bisogna diventare bravi e solerti come il resto della Padania (che poi tanto in linea non ci pare), solo dopo saremo degni di avere anche un piccola parte dei servizi, delle infrastrutture e delle opportunità su cui, invece, il resto del Paese può contare da sempre.
Banalizzando il messaggio, Ernesto Galli Della Loggia ritiene che siano perle regalate ai porci anche solo le promesse, che tali al momento sono quelle di Matteo Renzi.
Non ci ha “civilizzati” l’autostrada perché mai dovrebbe farlo la Tav? Ed è solo l’assaggio: di questo passo perché non smantellare totalmente anche la rete degli ospedali, aprire solo dei presìdi stagionali nelle zone dove i “siur” dovessero decidere di scendere per un bagno?
Ma nell’analisi forse tutti i torti Ernesto Galli della Loggia non li ha: abbiamo sopportato tanto perché non dovremmo sopportare altro? È qui il punto, lui scambia tolleranza e rassegnazione che stanno dietro l’atavico calabro silenzio, per allegra connivenza. E ha ragione, visto che avesse fatto analoghe considerazioni per una regione diversa, oggi avremmo la gente in piazza. Ma sappiamo bene che i calabresi sono bravi nel fare le barricate solo nei momenti sbagliati. E quando le fanno riescono pure ad orientarle male combattendo sterili guerre fratricide.
Ps. Anche il prof. Ernesto Galli della Loggia, come il mitico ispettore Rock, ha commesso un errore. Pensa che il “peggio” del prodotto calabrese sia in Calabria. Se nelle sue vacanze estive leggesse l’ottimo volume di Alessia Candito, ripubblicato dalla collana “Ore di Legalità” del Sole 24ore, scoprirebbe cose interessanti sotto casa sua.
Il titolo del volume è già di per sé significativo: “Chi comanda a Milano”.