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Chiesto oltre un secolo e mezzo di carcere per i clan della Piana

REGGIO CALABRIA È di oltre un secolo e mezzo di carcere il cumulo di condanne chiesto dal pm Giulia Pantano per gli imputati del procedimento “Puerto Franco”, che ha permesso di scoprire come i clan…

Pubblicato il: 20/01/2016 – 21:08
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Chiesto oltre un secolo e mezzo di carcere per i clan della Piana

REGGIO CALABRIA È di oltre un secolo e mezzo di carcere il cumulo di condanne chiesto dal pm Giulia Pantano per gli imputati del procedimento “Puerto Franco”, che ha permesso di scoprire come i clan avessero di fatto messo le mani sui servizi connessi alle operazioni di import-export e di trasporto merci per conto terzi, creando una sorta di monopolio nel settore dei trasporti, attraverso una serie di aziende formalmente e fittiziamente intestate ad affiliati di fila o a compiacenti prestanome. E per tutti – affiliati e non – coinvolti nel business le pene invocate sono pesantissime. Sedici anni sono stati chiesti per Antonio Franco, Salvatore Rachele, Domenico Canerossi e Bruno Stilo, mentre è di 14 anni e 6 mesi la condanna invocata per Giuseppe Franco. Per Rocco Rachele il pm ha chiesto dodici di carcere, mentre ha chiesto al gup di condannare a 10 anni Salvatore Pesce 10, Gaetano Rao e Franco Rao. Otto anni di carcere sono stati invocati per Antonino Pesce e Marco Mazzitelli, mentre 7 anni e 4 mesi sono stati chiesti per Giuseppe Florio. È invece di 6 anni e 8 mesi la condanna invocata per Vincenzo Pesce e Rocco Pesce, mentre 6 anni sono stati chiesti per Francesco Oliver. Infine, il pm ha chiesto al gup di condannare a 3 anni Salvatore Luccisano, e a 2 anni ciascuno Andrea Franco Espedito, Giuseppe De Masi, Antonia Franco, Roberto Matalone, Filippo Scordino e Domenico Tocco.

LE INDAGINI Per il pm sono tutti a vario titolo relazionabili con le imprese dei clan che hanno infettato la logistica a Gioia Tauro, non solo imponendosi a soggetti terzi come interlocutore unico nel settore, ma anche come “lavanderie” in grado di generare un’enorme liquidità attraverso la contabilizzazione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Soldi che finivano poi per essere corrisposti agli elementi di spicco delle cosche Pesce e Molè che passavano regolarmente all’incasso. Manovre rese possibili anche dalla creazione di una serie di fittizie cooperative di lavoro, costituite all’unico scopo di far evadere le imposte alle imprese riconducibili alle cosche mafiose, nonché per consentire la fuoriuscita di flussi finanziari delle aziende della ndrangheta, tramite fatture relative ad operazioni inesistenti.

SOLDI PER I CLAN SULLA PELLE DI CHI LAVORA Il meccanismo era semplice. L’azienda di trasporti riconducibile ai clan “girava” la commessa ottenuta – o meglio pretesa in nome della caratura criminale della propria famiglia – alla cooperativa, dribblando così oneri contributivi e fiscali nei confronti dei lavoratori, che non figuravano come dipendenti, ma soci di una coop cui venivano ceduti i mezzi in comodato d’uso. Il trucchetto permetteva dunque di mettere sul mercato forza a prezzo di ribasso, con notevole danno per tutti gli altri operatori del settore, tagliati fuori perché impossibilitati a praticare prezzi altrettanto concorrenziali. Ma queste non erano le uniche attività che permettessero ai clan di macinare quattrini a Gioia Tauro.

SISTEMA STRUTTURATO I Pesce infatti, non disdegnavano di certo i proventi che si potevano macinare con il contrabbando di merce contraffatta o di carburante. Un’attività già emersa nel corso di diverse indagini – prima fra tutte Oro Nero – che ha permesso al clan di realizzare una colossale truffa. Da una parte, i Pesce acquisivano gasolio sottoposto ad un regime impositivo agevolato perché destinato a particolari settori – motopesca, agricoltura, sottoserra – utilizzandolo però per i trasporti, dall’altra obbligavano distributori stradali, compiacenti o a loro riconducibili, ad emettere false fatture per “coprire” il carburante acquistato in contrabbando. A guadagnare era sempre la ‘ndrangheta.

a.c.

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