REGGIO CALABRIA È stato più volte minacciato. Al suo indirizzo di casa, come a palazzo San Giorgio, ha ricevuto diverse lettere minatorie, ma ha scelto di non renderlo noto. Giuseppe Falcomatà è un sindaco sotto tiro. Il particolare emerge dal provvedimento con cui il ministero della Giustizia ha confermato il carcere duro per un noto boss, da oltre dieci anni dietro le sbarre. Ma il clan a cui appartiene – spiega il ministero – è ancora pienamente in attività e in grado di colpire e fare male. E «per completezza di informazione» – segnalano da via Arenula – opera in una città in cui le ‘ndrine non hanno esitato a prendere di mira fin dai primi mesi della sua amministrazione il massimo rappresentante delle istituzioni locali.
I PRIMI AVVISI Il 27 ottobre 2014, dopo lo scioglimento per mafia del Comune e gli anni duri del commissariamento, Reggio Calabria ha di nuovo un sindaco eletto. Si chiama Giuseppe Falcomatà ed è il più giovane d’Italia. In quell’ottobre, a soli 31 anni, si appresta a confrontarsi con i problemi di una città in ginocchio e l’eredità pesante del padre, che vent’anni prima di lui è stato chiamato a ricostruire Reggio dalle macerie della Tangentopoli locale. Una fulminante malattia non gli ha dato il tempo di completare il suo compito, interrompendo bruscamente quella “primavera”. Il figlio Giuseppe, invece, ha appena il tempo di capire che strumenti abbia a disposizione a palazzo San Giorgio, quando arriva la prima lettera di minacce. Porta la data del 16 dicembre e da allora, per il sindaco e la sua famiglia, è stata predisposta una «vigilanza generica». Ma le intimidazioni non si sono fermate.
ALLARME A PALAZZO S. GIORGIO Il 17 aprile 2015 a palazzo San Giorgio arrivano due lettere. Sono indirizzate al presidente del consiglio comunale Demetrio Delfino e all’assessore all’ambiente Antonino Zimbalatti, ma non sono loro i reali destinatari. Quelle lettere – si legge nel provvedimento del ministero – «contengono esplicite minacce nei confronti dell’attuale sindaco della città, Giuseppe Falcomatà, e dei componenti della sua famiglia». Motivo? «Le future procedure di assunzione dei dipendenti della Multiservizi, l’azienda ex partecipata del Comune posta in liquidazione per interdittiva prefettizia». A Reggio Calabria non solo l’amministrazione è stata sciolta per «contiguità mafiosa». Anche le partecipate che palazzo San Giorgio controllava – hanno svelato le inchieste del pm Giuseppe Lombardo e confermato poi le sentenze – erano strumenti che i clan hanno usato per svuotare le casse pubbliche.
IL FUTURO NON SCRITTO DELLE MUNICIPALIZZATE Per anni, i fondi destinati a garantire servizi essenziali alla città – la raccolta dei rifiuti, la manutenzione delle strade e del verde pubblico – si sono convertiti in un assegno mensile per i clan, padroni delle municipalizzate. Quelle società sono state sciolte e in cantiere ci sono due nuove in-house che sostituiscano le precedenti. Sulla carta sono già nate, si chiamano Castore e Polluce. Ma sono lungi dall’essere operative. A ostacolarne la concreta partenza c’è anche uno spinoso problema sociale, ancor prima che politico: il destino delle centinaia di lavoratori un tempo impiegati nelle municipalizzate.
IL NODO MULTISERVIZI Molti – hanno dimostrato le indagini – erano vicini ai clan che controllavano le società, altri ne erano addirittura membri a tutti gli effetti, altri ancora avevano “solo” bussato alle porte dei boss o dei politici amici dei boss per avere un lavoro. Poi c’erano i semplici lavoratori. Hanno tutti diritto di passare alle dipendenze delle nuove società? E se così non è, quale dovrà essere il criterio? Il Comune sembra ancora non aver deciso. Il bando per la selezione del personale che dovrà lavorare alle dipendenze di Castore e Polluce è stato più volte annunciato, ma rimane ancora nel campo delle intenzioni. Nel frattempo, per gli ex lavoratori di Multiservizi – per lungo tempo in mobilità – è stato approntato insieme alla Regione un progetto di riqualificazione professionale. Ma se il malumore, legittimo, per l’incerto futuro è stato espresso con proteste e presidi, quello illegittimo e vile ha preso la strada delle lettere di minaccia.
FIRMATO ROCCO DE STEFANO Nelle missive inviate a Palazzo San Giorgio circa un anno fa – si legge nel provvedimento – «si evidenza il rancore espresso nei confronti dell’attuale sindaco qualora dovesse assumere provvedimenti finalizzati a favorire gli ex dipendenti della società partecipata». Minacce che ostentano una firma e un indirizzo: Rocco De Stefano, via Archi. Nome e via – affermano gli investigatori – assolutamente di fantasia, ma entrambe estremamente significative. Il messaggio è chiaro: le municipalizzate sono cose del clan di Archi e a toccarle c’è il rischio di farsi molto male.
LE INDAGINI In procura da tempo si ragiona sulla natura di quelle lettere e sul contesto in cui siano nate. Messaggio e modalità non sono quelli canonici delle ‘ndrine. «Lo scenario è molto strano», si mormora. I clan non hanno bisogno di firmare per farsi riconoscere, sanno perfettamente come far arrivare i propri segnali. Di certo ha destato preoccupazione l’incendio del portone di casa di uno dei funzionari del Comune che si occupa di municipalizzate, ma nessuna ipotesi è esclusa, neanche quella dello squilibrato. Tuttavia, gli investigatori e gli inquirenti più accorti non si sono lasciati sfuggire un dato.
VERITA’ STORICA Quella che ancora da più parti si cerca di mettere in discussione dentro le aule di giustizia, per il reggino medio è verità storica. Per la città, che le municipalizzate fossero cosa dei clan, è dato acquisito. Tanto – si ipotizza – da spingere qualcuno a tentare di dettare la linea al sindaco a nome di Archi e dei suoi clan, a testimonianza di un rapporto che la pancia della città conosce ed ha già metabolizzato. Eppure c’è chi ancora lo mette in dubbio. Ma anche questo – si mormora al sesto piano del Cedir – non è un caso. Perché tanta, troppa borghesia reggina ha permesso ai clan di forgiare sulla pelle di Reggio e dei reggini un nuovo “metodo”.
PILASTRO DEL NUOVO ORDINE La cannibalizzazione delle società miste – hanno ampiamente dimostrato le inchieste – è stata uno dei pilastri di fondazione della “ndrangheta nuova” forgiata sul regime di concordia instaurato all’indomani della seconda guerra di Reggio. Investigatori ed inquirenti lo hanno appreso dalla viva voce di Mico Libri, intercettato a Prato nel 2002 mentre conversa con l’astro nascente della ‘ndrangheta imprenditrice, Matteo Alampi. Parlano di municipalizzate – all’epoca in via di gestazione – e sanno già come saranno spartite. Ancor prima che le nuove società diventino operative, fra i clan – rivela quell’intercettazione definita dal colonnello del Ros Valerio Giardina «un trattato sull’evoluzione della ‘ndrangheta a Reggio Calabria» – c’è già un accordo, frutto di regole in grado di cancellare gli antichi schieramenti. Quelle norme sono state abbozzate alla fine del conflitto e messe a punto negli anni a venire, business dopo business.
IL PREZZO DELLE REGOLE Per tutelare gli affari ed eliminare in origine le ragioni di conflitto, il direttorio delle grandi famiglie reggine – i De Stefano-Tegano, i Condello, i Libri – ha iniziato spartirsi equamente grandi affari, grandi estorsioni e grandi progetti. Un metodo che le inchieste hanno riscontrato vigente in ogni settore di business. Leciti e illeciti. Dall’edilizia privata alle aste giudiziarie, dalle estorsioni alla grande distribuzione, dalle municipalizzate ai cantieri, dagli appalti pubblici alle speculazioni immobiliari, dalle cooperative alla “gestione” delle attività commerciali. Con il beneplacito, se non la connivenza, di professionisti di ogni ordine grado, i clan si sono presi tutto. A pagare sono stati i reggini, per decenni depredati dalle ‘ndrin
e e oggi anche costretti a subire una nuova stagione di bombe, intimidazioni, violenze e sangue. Episodi che in larga parte portano tutti la stessa firma, che rimanda ad Archi e ai casati di ‘ndrangheta che da sempre la dominano. Quei casati che a costo di sangue hanno forgiato delle regole. E anche a costo di sangue pretendono che siano rispettate. Al millimetro.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
x
x