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Reggio, ridotte le condanne per i Lo Giudice

REGGIO CALABRIA Scoppia in lacrime e non riesce più a fermarsi l’imprenditore Nino Spanò, assolto dalla Corte d’appello di Reggio Calabria dall’accusa infamante di essere un prestanome del clan Lo Gi…

Pubblicato il: 18/05/2016 – 12:32
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Reggio, ridotte le condanne per i Lo Giudice

REGGIO CALABRIA Scoppia in lacrime e non riesce più a fermarsi l’imprenditore Nino Spanò, assolto dalla Corte d’appello di Reggio Calabria dall’accusa infamante di essere un prestanome del clan Lo Giudice. «È sette anni che io dico che sono una persona per bene», mormora mentre tenta di chiamare i familiari per dar loro la notizia dell’assoluzione che cancella la condanna a sei anni rimediata in primo grado, come del dissequestro della sua “Nautica”, il cantiere navale finito sotto sigilli quando era il principale punto di riferimento per riparazioni e rimessaggio barche nel reggino. Sebbene sia l’unico assolto, Spanò non è l’unico a sorridere. Per decisione della Corte d’appello infatti, escono infatti ridimensionate le condanne inflitte in primo grado dal collegio presieduto da Silvia Capone nel procedimento “Do ut des”.

LE CONDANNE Assolto dall’accusa di essere capo promotore del clan e riconosciuto come semplice partecipe, passa da una pena di 20 anni di reclusione a 13 anni e 9 mesi Luciano Lo Giudice, imprenditore e manager della famiglia. L’assoluzione da uno dei capi di imputazione che gli venivano contestati arriva anche per il colonnello Saverio Spadaro Tracuzzi, considerato uno degli uomini delle istituzioni a disposizione di Luciano, condannato a 10 anni di carcere al posto dei 14 anni e 6 mesi rimediati in primo grado. Ma il collegio ha anche ridotto le pene inflitte a gregari e affiliati del clan, accusati di aver a vario titolo contribuito alle “attività di famiglia”. Rimediano 12 anni e 8 mesi di carcere al posto dei 16 in precedenza incassati Giuseppe Reliquato e Bruno Stilo, mentre è di 12 anni e 4 mesi più 2.400 euro di multa la pena finale decisa per Antonio Cortese, in primo grado condannato a 18 anni come armiere del clan.
È invece di 9 anni di reclusione la pena decisa per Fortunato Pennestrì, in precedenza condannato a 10 anni, mentre passa da 13 anni a 11 anni e 6 mesi quella inflitta a Salvatore Pennestrì. Infine, scende solo di qualche mese la pena stabilita per l’imprenditore milanese Giuseppe Cricrì, condannato a 4 anni e 6 mesi in primo grado e 4 anni in secondo, mentre per Giuseppe Lo Giudice la condanna passa da 7 anni e 6 mesi a 3 anni e 8 mesi, più 1.200 euro di multa.

L’INCHIESTA Bisognerà attendere le motivazioni per comprendere cosa abbia indotto i giudici a riqualificare il ruolo e il peso di Luciano Lo Giudice all’interno del clan, ma la sentenza appare in ogni caso confermare l’impianto generale dell’inchiesta che ha ricostruito le più recenti attività della famiglia Lo Giudice. Rimasto “pulito” fino all’arresto del 2009, Luciano era stato scelto come volto spendibile nel mondo imprenditoriale reggino, destinato a mettere a frutto i patrimoni derivanti dalle storiche attività di famiglia: l’usura – praticata anche nei confronti di quei soggetti irretiti con il vizio del gioco, grazie alle macchinette sconosciute al Monopolio che Luciano teneva nel suo bar – e l’intestazione fittizia di beni. Secondo il pm Beatrice Ronchi, che ha sostenuto l’accusa in primo grado, Luciano non sarebbe stato però solo il manager del patrimonio della famiglia Lo Giudice ma anche il soggetto utilizzato dal clan per avvicinarsi alle istituzioni, proponendosi come fonte confidenziale per “far cadere” Pasquale Condello. Confidenze che però mai avrebbero pesato o influito sulle indagini per la cattura di Condello, come confermato dalla sentenza definitiva del processo Meta.

IL PENTITO LO GIUDICE Determinanti per il procedimento giunto oggi alla sentenza di secondo grado sono state le dichiarazioni del controverso collaboratore Nino Lo Giudice, pentito prima del dibattimento, quindi pentito di essersi pentito come esplicitato in due scottanti memoriali con cui – dopo la fuga dal programma di protezione – ha ritrattato quanto in precedenza dichiarato, ed infine, dopo essere stato riacciuffato e interrogato, silente detenuto. Un percorso accidentato che ha visto Lo Giudice, in un primo tempo, convertirsi nel principale accusatore degli uomini della sua famiglia, quindi puntare il dito contro gli stessi magistrati che lo avevano gestito, ed infine – dopo l’arresto che ne ha interrotto la latitanza – trasformarsi in monosillabico detenuto, ancora incerto sullo sbocco da dare al suo rapporto con i magistrati. Un percorso accidentato che sembra non aver intaccato la sua attendibilità, perché – hanno affermato i giudici di primo grado – pur riconoscendo «la valenza di ritrattazione del contenuto dei due memoriali», quanto affermato non è «in grado di incrinare l’attendibilità delle dichiarazioni rese da Lo Giudice Antonino». Per i giudici infatti «non può ignorarsi che il collaboratore, come sopra già esposto, non ha inteso spiegare personalmente né a questo Tribunale, nè alle Parti presenti in aula all’udienza del 17 dicembre 2013, i motivi e le circostanze dell’improvvisa sparizione, trincerandosi dietro l’essersi avvalso della facoltà di non rispondere, e ciò contrariamente al contegno che lo aveva invece animato durante le plurime udienze».

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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