Come cambierà la vita (professionale) dei dirigenti pubblici
In questi giorni (lo scorso 25 agosto) il governo, varando la riforma della dirigenza pubblica in attuazione della legge delega cosiddetta Madia, tenta di porre la parola fine alla diatriba esistente…

In questi giorni (lo scorso 25 agosto) il governo, varando la riforma della dirigenza pubblica in attuazione della legge delega cosiddetta Madia, tenta di porre la parola fine alla diatriba esistente tra l’esercizio della politica e quello dell’alta burocrazia.
Il problema è quello di capire se con buon esito o meno.
Il decreto legislativo n. 165/2001 fissa, al riguardo (art. 4), le regole generali:
– attribuisce al personale politico, chiamato dall’elettorato a governare la PA (pubblica amministrazione) lato sensu, le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e di controllo sul prodotto burocratico. Un compito che si concretizza con la definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare, da perfezionare con tutti gli atti relativi a sua disposizione, nonché con la verifica obiettiva del conseguimento dei risultati amministrativi e gestori programmati, che devono essere aderenti agli indirizzi impartiti;
– assegna ai dirigenti l’adozione dei provvedimenti amministrativi, anche di quelli che impegnano la pubblica amministrazione verso l’esterno, e la gestione, da intendersi estesa alla più generale attuazione dei programmi e della conduzione complessiva dell’ente di riferimento, sotto il profilo finanziario, tecnico e amministrativo.
A ben vedere, il legislatore, nel segnare decisamente la linea di confine tra decisore politico e dirigenza, ha ritenuto assegnare a quest’ultima i più estesi compiti gestori e l’attribuzione delle relative responsabilità, conferendole autonomi poteri di spesa, di organizzazione del personale e del patrimonio strumentale nonché di controllo.
Con una tale netta distinzione, viziata nel suo ottimale funzionamento dall’uso, non propriamente esaltante, che si è fatto delle regole del cosiddetto spoil system, si sono ingenerati sopraffazioni e abusi nonché ricadute negative sul vivere civile.
Da una parte, v’è stato, infatti, un frequente esercizio della politica a favorire i propri interessi di attrazione e gestione del consenso, privilegiando spesso criteri di individuazione della dirigenza non propriamente premianti della meritocrazia.
Dall’altra, si sono registrate:
– per un verso, pratiche autodifensive della dirigenza, specie di quella più sgamata, esercitata attraverso difficoltà di esecuzione, spesso indebite, opposte nella ricerca delle soluzioni ai problemi, nei confronti dei quali la stessa ha preferito nicchiare sino alla resa del decisore politico;
– per un altro, ovviamente nettamente alternativo al primo, di adeguarsi ai desiderata dell’offerta politica, arrivando addirittura a stimolarla a tal punto da divenire espressione della stessa, finanche nell’obiettivo di curare il consenso del rispettivo «mentore».
Insomma, si sono commessi errori seriali dell’una e dell’altra parte, che hanno determinato l’esercizio viziato della politica e una attività della dirigenza in stato di perenne accusa dall’apparato sociale, con la conseguenza di ricondurre ad essa tutti i ritardi sino ad addebitarle una gran parte dei frequenti casi di correità nel malaffare (mafia Capitale, docet).
All’insorgere di questa contrarietà allargata nei confronti della burocrazia hanno certamente contribuito tutte quelle ricorrenti attività di resistenza, attiva ovvero passiva, opposte nei confronti degli adempimenti istituzionali, salvo accelerarli a seguito dell’avvenuto (ri)affidamento dell’incarico «preteso», ma soprattutto il più generale convincimento che la stessa costituisce il freno al corretto e più celere funzionamento della pubblica amministrazione. Un giudizio negativo al cui consolidamento ha recentemente contribuito la diffusa truffa, ampiamente documentata dai media, perpetrata da un nutrito segmento dei dipendenti pubblici attraverso l’uso improprio dei badge, certificativo delle presenze a fronte delle accertate continuative assenze dal lavoro.
Non solo. Nell’ambito di una tale particolare relazione «contrattuale» che lega la politica che decide con i nominandi, si è avuto modo addirittura di constatare con una certa frequenza, all’atto della sua formazione, la generazione, sia da una parte che dell’altra, di fatti costituenti reati più o meno gravi, tutti finalizzati a mettere su pratiche di quantomeno innaturale convincimento. Invero, esse vanno dalla sottoposizione a varie condizioni di «sottomissione», da parte del decisore pubblico nei confronti dell’aspirante, per assegnare gli incarichi più strategici e più di prestigio allo svuotamento temporaneo, viceversa, da parte del dirigente in uscita, degli archivi della pregressa esperienza amministrativa, quasi come se questi fossero patrimonio personale, sottoponendo implicitamente la (ri)disponibilità degli stessi all’attribuzione dell’ufficio dirigenziale vantato.
Una elencazione di eventi, questa, che la dice lunga sulla necessità di dovere risanare un rapporto, affetto storicamente da note patologie di funzionamento, fondamentale per il corretto vivere e per generare le migliori politiche di accoglimento e di attrazione delle iniziative economiche, «costrette» altrimenti a trovare, così come già avviene oggi, residenza altrove.
A fronte di tutto questo bailamme, ovunque constatabile, necessitava e necessita urgentemente una riscrittura delle regole, naturalmente accompagnata da un rinnovato modo di esercitare il ruolo del decisore politico, compromesso dalla brutta consuetudine di vedere preposti alla guida dei siti istituzionali soggetti non propriamente idonei, spesso avvezzi ad assumere atteggiamenti patriarcali e a curare ivi i propri interessi clientelari e di carriera politica.
La legge delega n. 124/2015, la c.d. Madia, ha offerto la sponda ad una rivisitazione organica del modo di essere pubblica amministrazione, ivi compresa la revisione della disciplina che regola l’attività dirigenziale.
In relazione a quest’ultima, l’ipotesi di decreto delegato approvato dal Consiglio dei Ministri sembra rappresentare una soluzione accettabile, certamente emendabile nel percorso dell’acquisizione dei necessari pareri delle commissioni parlamentari, propedeutici alla sua approvazione definitiva, da perfezionarsi per il prossimo mese di novembre. Un percorso non facile a compiersi per le naturali resistenze che si registreranno a cura di chi presumerà, erroneamente, di opporre modifiche a tutela esclusiva dei rispettivi interessi piuttosto che di salvaguardia del più corretto funzionamento della pubblica amministrazione in generale. In una tale ottica, le rappresentanze politiche, riassunte nelle configurazioni associative degli enti pubblici di riferimento datoriale, dovranno lavorare ad esclusiva tutela dell’interesse generale comprimendo, all’uopo, ogni istanza intesa a favorire la competenza gestoria della rappresentanza politica.
Il contenuto dello schema di decreto legislativo
L’ipotesi governativa poggia la sua impalcatura su tre pilastri: l’accesso alla dirigenza per selezione pubblica, sia per i vecchi che per i nuovi, fatta salva la deroga per i c.d. esterni; la temporaneità degli incarichi; una più rigida valutazione annuale del lavoro svolto, con consequenziale ridimensionamento della retribuzione in caso di negativo scrutinio dell’operato.
Invero, stabilisce anche qualcosa di nuovo ma perlopiù sancisce organicamente, rafforzandone la portata, principi già noti all’ordinamento, del tipo quello – per esempio – del licenziamento del dirigente pubblico in caso di reiterata valutazione negativa dell’operato e assenza di incarico, che si dà invece come novità assoluta. Ciò facilita il compito a coloro i quali, a ragione o torto, considerano la riforma proposta, nella gran parte, una riscrittura letterale delle disciplina già esistente, riconoscendo a quest’ultima la giusta efficacia a condizione solo che fosse stata correttamente applicata.
I ruoli unici e l’immissione
I dirigenti pubblici verranno inquadrati in tre ruoli unici, uno per lo Stato (da valere, sostanzialmente, anche per le Autorità indipendenti), u
no per le Regioni e un altro per gli Enti locali. Gli aspiranti vi accederanno dopo avere superato un corso oppure un corso-concorso, unico per ogni ruolo, da espletare con decorrenza annuale.
Quanto alle cosiddette dirigenze esterne, spesso volano del peggiore clientelismo mortificante e offensivo per le professionalità in disponibilità delle graduatorie concorsuali, rimane a ciascun ente la facultas di accedervi, mediante procedure selettive e comparative, entro il limite del dieci per cento del numero degli uffici dirigenziali generali, e dell’otto per cento del numero degli uffici dirigenziali non generali.
Il concorso pubblico è uno strumento noto in quanto acquisito nella più generale cultura, quello del corso-concorso un po’ meno. Esso, ridisciplinato da ultimo dal DPR n. 70/2013, è oramai previsto come metodologia selettiva per il 50% dei posti riservati a dirigenti (per i funzionari dello Stato e degli enti pubblici non economici, in misura non superiore al 50% dei posti disponibili negli organici). La modalità è complessa ma apprezzabile, in quanto garante della migliore selezione.
La prima fase, quella del concorso, è finalizzata a selezionare i migliori, in misura superiore al 20% dei posti disponibili per dirigenti, tra coloro i quali abbiano una esperienza di lavoro di almeno cinque anni nella pubblica amministrazione in posizioni funzionali all’accesso per le quali è richiesto il possesso della laurea (almeno triennale).
I vincitori avranno l’opportunità di accedere alla fase due, quella del corso della durata di dodici mesi, di cui otto mesi di formazione generale presso la Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA) e quattro mesi di formazione specialistica presso le Scuole di formazione delle amministrazioni di destinazione. Qualora le amministrazioni di destinazione non dovessero avere una propria scuola di riferimento, anche la parte di formazione specialistica viene svolta presso la SNA.
La caratteristica del corso è che i partecipanti sono soggetti a valutazioni continue, intermedie e finali, ad esito delle quali vengono nominati vincitori gli allievi che si collocano in graduatoria entro il numero di posti di dirigente disponibili. I partecipanti non dipendenti sono retribuiti mediante una borsa di studio del valore di 1.500,00 euro netti mensili. Gli allievi già dipendenti pubblici conservano il trattamento economico fruito presso l’amministrazione di provenienza.
Caratteristica dell’incarico
La nomina ad uno specifico incarico sarà di durata quadriennale e rinnovabili una tantum per un ulteriore biennio, solo se il dirigente abbia capitalizzato una valutazione positiva sul lavoro svolto. Una scelta, questa, sotto certi aspetti poco comprensibile che pare essere esclusivamente penalizzante della tutela della meritocrazia reale e della formazione specialistica acquisita, funzionale a produrre una pratica amministrativa e gestoria meritevole per la collettività, specie se si considera l’inderogabilità del divieto di reincarico in stretta relazione con la contemporanea presenza di una valutazione «di uscita» di pregio dell’attività svolta dal dirigente medesimo.
Al di là di una siffatta comprensibile critica, uno dei maggiori problemi da esaminare riguarda la prima nomina a dirigente – da effettuarsi a mente dello schema di provvedimento legislativo governativo – e quelle successive, ovverosia la selezione iniziale e le valutazioni ex post.
Entrambi i percorsi non appaiono, invero, per nulla esenti dal solito eccesso di valutazione politica, quantomeno indotta, che ci si augura non si concretizzi nel prosieguo (nel senso del tipo quella cui si è fatto ricorso sino ad oggi), attesa la prevalenza dell’interesse politico da tutelare rispetto ad un esercizio obiettivo dei compiti dirigenziali da svolgere. Con questo si fa esplicito riferimento a quella becera «direzione» politica che ha fatto sì che si ingenerasse, in tutti questi anni, un asservimento della burocrazia. Un fenomeno negativo di invasiva compromissione che non trovava riscontro alcuno sino all’approvazione del testo unico sul pubblico impiego del 2001 e che, invece, potrà essere esercitata, con tendenza al peggioramento di quanto già avviene oggi rispetto al passato, sull’eccellente servizio reso alla PA dai segretari comunali, esposti anch’essi ad una innaturale sottomissione dei loro compiti di garante dell’esercizio della legittimità. Ciò in forza della previsione della loro immissione nel ruolo unico degli enti locali.
Si accede all’incarico, si diceva, così come verrà effettuata la pesatura successiva delle scelte originariamente effettuate dalla PA, attraverso un rinnovato (!) sistema di valutazione, rispettivamente, dei curricula e della qualità delle prestazioni rese dal dirigente.
Il tutto viene rimesso, per quanto riguarda lo Stato, alla stima e alla misurazione effettuata da una Commissione per la dirigenza statale, da costituire entro 90 giorni dalla vigenza del decreto delegato. Al riguardo, è prevista l’unica deroga contemplata dalla riforma, posta ad esplicita salvaguardia delle posizioni dirigenziali svolte, in particolare, dai direttori generali dei Ministeri, riguardante l’attribuzione di una riserva, di almeno il 30% dei posti previsti, in favore di chi ha già ricoperto nella medesima PA ministeriale un ruolo di prima fascia. Un ovvio peso avranno i percorsi professionali simili ovvero affini maturati dai restanti direttori generali nell’effettuazione delle procedure concorsuali afferenti alla copertura del residuo 70% delle postazioni dirigenziali da assegnare.
Non molto diversamente accade per le Regioni e per gli Enti locali, a fronte dei quali è prevista l’istituzione di altrettante Commissioni, una per la dirigenza regionale e l’altra per quella locale.
La valutazione, la retribuzione e le penalità
Lo schema di decreto delegato assegna un rilevante peso, maggiore di quanto ne abbia oggi, alla pesatura reale delle performance prodotte annualmente dalla dirigenza.
Le operazioni di valutazione, meglio i criteri della sua definizione, e la sua stretta strumentalità nella valorizzazione della retribuzione di risultato, assume – nel testo approvato in via preliminare dal Governo – una novità di rilievo.
L’ipotesi regolativa fissa, al riguardo, il puntuale adempimento in relazione a precisi comportamenti, a fronte dei quali determinare obiettivamente l’entità retributiva «premiale» annuale, che deve essere strettamente commisurata alla produttività concretamente rendicontata, preventivamente concordata nel programma dell’incarico relativo attribuito dalla PA medesima. Un modo per evitare il perpetrasi del difetto di fondo dei meccanismi attuali che, basandosi su criteri generali e generici, peraltro fissati a fine dell’esercizio finanziario di interesse, finiscono per assicurare una premialità pariteticamente suddivisa fra tutti, quasi a voler rappresentare una quota fissa dello stipendio.
Per i dirigenti che non siano resi destinatari di alcun incarico scatta un penalty, che limiterebbe la retribuzione a quella di base e senza l’aggiunta del trattamento cosiddetto accessorio – che, allo stato della previsione, decrementerebbe lo stipendio di un valore lordo che oscilla tra il 40% e il 70% – oltre alla decurtazione dello stipendio di base della misura del 10% per ogni anno privo di incarico.
A tutto questo verrebbe ad aggiungersi una pesante sanzione produttiva del licenziamento nel caso in cui il dirigente attenzionato non partecipi ad un numero di selezioni annuali ovvero rimanga senza incarico per sei anni continuativi. Un stato di precarietà cui potere, tuttavia, rimediare con la richiesta di inquadramento nel ruolo funzionariale, nei confronti del quale la politica che governa dovrà fare un grande sforzo nel gestire il consistente saldo di nuova occupazione scaturente da quell’assurdo blocco del turn over messo in piedi da anni per fare garantire alla PA una maggiore disponibilità di cassa, diversamente non conseguibile.
*avvocato e dottore di ricerca dell’Unical