VIBO VALENTIA Quell’incontro doveva essere l’occasione per ricomporre un rapporto che si era incrinato. Almeno così se lo aspettava il manager Bruno Calvetta che, all’epoca, era direttore generale del dipartimento regionale Lavoro e aveva come assessore di riferimento un suo compaesano di Serra San Bruno, Nazzareno Salerno, consigliere regionale di Fi arrestato oggi nell’ambito di un’inchiesta sulle presunte ingerenze della ‘ndrangheta nella gestione dei fondi europei. Erano amici, Calvetta e Salerno, e il loro rapporto era sembrato ancora più stretto da quando i calabresi avevano eletto Peppe Scopelliti alla guida della Regione. Dai primi mesi del 2014, però, qualcosa tra i due si rompe. Una rottura che non è solo una questione privata, ma è riconducibile a uno degli episodi centrali dell’inchiesta della Dda di Catanzaro che portato in carcere Salerno.
«CON ME HA SBAGLIATO IL SIGNORINO…» Già da aprile 2014 Calvetta lamenta una serie di “attacchi” subìti dall’allora assessore regionale: «Dopo … dopo una disponibilità totale … totale … – si sfoga il manager parlando con Valerio Grillo, avvocato e già coordinatore provinciale del Pdl a Vibo, vicino a Salerno – per vederti attaccato così, che vuole fare “u fìssillo”, che vuole fare il capo del cavolo … non c’è … che pensa che le persone le può manovrare come vuole, con me ha sbagliato il signorino … hai capito?». Ancora più esplicita secondo gli inquirenti è la telefonata con un altro Grillo, Alfonso, all’epoca consigliere regionale della lista “Scopelliti presidente” e avversario interno di Salerno nel centrodestra scopellitiano: «Aahh … io gli ho fatto una relazione contro … eehh … che ti tremano i polsi a leggerla … questo è un soggetto che si vuole gestire tutte le cose da se, capito? Ma gestire, gestire eehh», avverte Calvetta. «Allora, io non ti chiedo di fare … di fare, come dire … colui il quale tradisce, perché non lo farei mai … no eh …», risponde Grillo, che ovviamente poi si dimostra interessato ai dettagli delle eventuali scorrettezze commesse da Salerno.
L’INCONTRO Quindi si arriva all’incontro, avvenuto la mattina del 16 maggio 2014 e documentato con pedinamenti e foto dagli investigatori del Ros di Catanzaro. Colpisce già il luogo prescelto: un assessore regionale e un importante manager non si incontrano in un ufficio pubblico, ma in un vivaio di un privato che si trova tra Vibo e Pizzo. E non sono soli, ma si incontrano alla presenza di due soggetti ritenuti vicini ai clan e coinvolti nell’inchiesta della Dda, Vincenzo Spasari e Gianfranco Ferrante. Calvetta e Salerno discutono animatamente alla presenza di Spasari, che tende a sostenere le ragioni del secondo. Per gli inquirenti si tratta di un’intimidazione bella e buona: Salerno vuole che la gestione del progetto sul Credito Sociale, sino a quel momento in capo al funzionario (a lui sgradito) Cosimo Cuomo, passi nelle mani di Vincenzo Caserta. E i desiderata dell’ex assessore vengono alla fine assecondati: «L’evidente stato di soggezione in cui è posto il Calvetta – si legge nelle carte dell’inchiesta – si evince dal contenuto di una telefonata (delle ore 11.11.49) che il predetto, immediatamente dopo essere uscito dal vivaio (ore 11.07) e mentre si trova in auto fra Spasari Vincenzo e Ferrante Gianfranco, effettua alla sua collaboratrice Bonafede Lucia». Senza neanche attendere di arrivare in ufficio, quindi, l’allora dg del dipartimento Lavoro chiede alla sua assistente di predisporre gli atti per far passare la responsabilità del Credito sociale da Cuomo a Caserta.
IL “BUON ESITO” DELL’INTIMIDAZIONE Per i magistrati il contenuto intimidatorio dell’incontro «è confermato anche, a valle, dal “buon esito” dello stesso, atteso che il Calvetta uscirà completamente di scena, assumendo un atteggiamento remissivo, all’opposto di quanto aveva sino a quel momento fatto; atteso che, laddove il Salerno non era riuscito, strumentalizzando i suoi poteri istituzionali di assessore e ordendo una vera e propria “guerra” fatta di “richiami” e “disposizioni scritte”, è riuscito proprio grazie al “semplice” colloquio svoltosi alla presenza del Ferrante e dello Spasari». Insomma, secondo gli inquirenti Salerno avrebbe piegato Calvetta alla sua volontà sfruttando l’intervento delle due persone ritenute contigue ai clan. La vittima dell’intimidazione, indicata esplicitamente nelle carte come parte offesa, avrebbe poi spiegato agli inquirenti la sua remissività affermando di aver agito così quasi per sfinimento, come a dire: «”Basta, non ne posso più di combattere con una persona che mi porta a questi livelli, che faccia quello che vuole. Naturalmente non faccio atti illegittimi”. Infatti non ho fatto un atto illegittimo», ha spiegato Calvetta ai pm. Il gip Giuseppe Perri ha invece letto la vicenda evidenziando come «il provvedimento amministrativo imposto al Calvetta dai tre coindagati, al di là se formalmente regolare, era un atto, non solo non dovuto, ma che lo stesso pubblico ufficiale riteneva ingiustificato e inopportuno, trovando palesemente il suo fondamento e la sua ragione determinante, non già nell’interesse pubblico, per come peraltro confermeranno i fatti successivi, ma esclusivamente nell’interesse privato del Salerno».
Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it
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