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Il ritorno (alla Cupa) di Capossela

COSENZA A cinque anni da Rebetiko Gymnastas e dopo il tour estivo svoltosi interamente all’aperto, relativo al primo segmento dell’album Canzoni della Cupa (uscito nel 2016), quello sulla Polvere, pe…

Pubblicato il: 11/03/2017 – 19:41
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Il ritorno (alla Cupa) di Capossela

COSENZA A cinque anni da Rebetiko Gymnastas e dopo il tour estivo svoltosi interamente all’aperto, relativo al primo segmento dell’album Canzoni della Cupa (uscito nel 2016), quello sulla Polvere, per l’istrionico Vinicio Capossela è cominciato lo scorso mese di febbraio il periodo dell’Ombra, la parte più misteriosa, più introspettiva e per la cui messa in scena è stato scelto, di contro, il periodo invernale e lo spazio chiuso del teatro. Il disco è tratto dal libro Il paese dei coppoloni, edito da Feltrinelli nel 2015, e dal docufilm ad esso ispirato diretto da Stefano Orbino, sorta di antologia di Spoon River contadina i cui personaggi sono quelli che popolano l’universo quasi mitico dell’Alta Irpinia, terra paterna dell’artista, con i loro canti popolari, le storie, le filastrocche, gli antichi riti e credenze. E così che le “creature della cupa” prendono vita, dal “pumminale”, a Maddalena la castellana, alla bestia del grano, pronte a rivivere sul palco per le tanto attese tappe calabresi, promossa da Esse Emme Musica, al Cilea di Reggio Calabria domenica 12 e il giorno successivo a Cosenza, al Teatro Rendano. Con gli smartphones rigorosamente spenti.
Qual è il significato dell’Ombra, vera protagonista di questo pezzo di tour, e cosa sono gli altri spaventi menzionati nel titolo?
«Viviamo un’era di illuminazione violenta e artificiale. L’Ombra è un qualcosa a cui spesso non prestiamo attenzione, ma essa ci accompagna sempre, sta davvero attaccata a ognuno di noi in modo diverso e personale. Le ombre sono fisse, nude e nitide. Per questo vogliamo restituire il tremore alle ombre, la loro mobilità fragile. Perché l’Ombra non ci segue, ci spinge. È lei a coprire noi calpestandoci, e abbiamo bisogno di lei per farci interi. Nel Settecento andava di gran moda farsi imprimere la siluette, quasi come una fotografia dell’invisibile. Si teorizzava anche la divinazione di quel profilo: leggere la macchia nera della propria figura come si legge la mano, o il cielo o i tarocchi. Cercheremo di fare qualcosa del genere, se possibile anche in teatro. Gli altri spaventi non sono altro che vecchie conoscenze: il minotauro, il ciclope, i mostri che albergano dentro noi stessi e che vivono nell’ombra. Ma soprattutto la cosa più spaventosa: noi stessi, la nostra ombra interiore. Perché, come dice il mio amico pescatore d’ombre Jacopo Leone, la luce rivela il visibile, l’ombra rivela l’invisibile».
Torniamo al disco, Canzoni della Cupa. Un doppio lavoro nato da una gestazione decennale, dalle suggestioni che ti derivano dall’aver osservato a lungo e da vicino le cupe campane. Cosa hai ricavato da questo potentissimo arsenale di simboli?
«La cupa è un luogo raggiunto dalla luce solo trasversalmente, in cui trovano riparo le creature che sfuggono al chiarore e alla limpidezza dello sguardo, le cui apparizioni sono uniche e per questo foriere di leggende, storie generalmente conosciute, ma non verificabili. Esseri che trovano habitat nel cosiddetto folclore popolare che è un po’ la scatola del nostro inconscio collettivo. Del lavoro della terra, della radice, della sua sedimentazione nel nostro inconscio, di quel peso dell’ombra culturale che ci portiamo radicato ai piedi, è costituito il disco».
Differenze con le date estive e il relativo allestimento scenico?
«Polvere e ombra non sono altro che le due parti complementari dell’essere umano. La stagione estiva, quella appunto della “polvere”, è cominciata il primo maggio con i Calexico, è proseguita con le trombe dei mariachi Mezcal, i tamburi cupa-cupa di Tricarico, chitarre e voci di “femmine” come Enza Pagliara, in una scenografia fatta di stoppie di grano. Le “ombre”, invece, saranno quelle di Anusc Castiglioni, con le luci di Loic Hamelin, insieme ai teli, alle sagome, ai rami d’albero che al buio possono diventare lupi, alla luce del plenilunio e i riflessi del fuoco nella grotta. Lo spettacolo è diviso in quattro quadri quanti sono i livelli d’ombra: il selvatico, l’archetipo, lo specchio e il paese. La band è diversa e anche il repertorio. Dove c’erano trombe ora ci sono violini, corde, tamburi a cornice, pianoforte e poi il ritorno del principe del Teremin e delle sue diavolerie, Vincenzo Vasi. Nel foyer sarà anche disponibile una cabina per chi voglia farsi fotografare l’ombra dal viso. La parte evanescente di noi stessi, la più misteriosa e nostra, perché, come scriveva Wilde, “l’Ombra non è ombra del corpo, ma corpo dell’anima”».

Chiara Fazio
redazione@corrierecal.it

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