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TRASH | «I De Stefano avevano contatti in Questura»

REGGIO CALABRIA Nella partita a scacchi che da tempo magistrati e forze dell’ordine hanno ingaggiato con i più potenti clan di Reggio Calabria, i De Stefano hanno avuto possibilità di barare. «Loro a…

Pubblicato il: 11/05/2017 – 16:32
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TRASH | «I De Stefano avevano contatti in Questura»

REGGIO CALABRIA Nella partita a scacchi che da tempo magistrati e forze dell’ordine hanno ingaggiato con i più potenti clan di Reggio Calabria, i De Stefano hanno avuto possibilità di barare. «Loro avevano dei contatti all’interno della Questura».

LE PREZIOSE RIVELAZIONI DELL’IMPRENDITORE Ad affermarlo è l’imprenditore del settore rifiuti, per lungo tempo intimidito, quindi rovinato dal clan, che da qualche mese ha iniziato a spiegare come funzionassero le cose nel settore. Dichiarazioni che si incastrano perfettamente con quelle del pentito Salvatore Aiello, ex direttore tecnico della Fata morgana, ma in alcuni casi vanno anche oltre. L’imprenditore ha infatti lavorato gomito a gomito con Paolo Caponera, cugino e longa manus di Paolo Rosario De Stefano, e per questo ha finito per essere messo a conoscenza anche di alcuni delicati segreti del clan.

LA TALPA DEL CLAN «Loro sapevano» dice, preoccupato, l’uomo al pm Musolino che lo interroga. «Quando, diciamo, sono stati arrestati la prima volta, loro sapevano già come sarebbero andate le cose, ma a distanza di mesi… ha capito? cioè, loro avevano, lui mi ha detto che c’era una persona che stava all’interno della Questura… che gli diceva». Una talpa di cui Paolo Caponera non ha mai rivelato il nome, ma su cui si è fatto sfuggire più di un dettaglio.

 

IDENTIKIT «Diceva che c’era questa persona che era lì in Questura, però non era nell’ufficio specifico, però, di tanto in tanto, andava e si guardava i fascicoli». In un’altra occasione invece, lo stesso Caponera avrebbe rivelato all’imprenditore che «c’è stato un funzionario della Questura, che non so chi sia, che è andato da Paolo Rosario o gli ha mandato delle lettere, dei messaggi, non mi ricordo adesso con precisione, per dirgli che c’erano delle indagini in corso nei suoi confronti e che, se voleva sapere di più, gli doveva dare dei soldi».

A PARTI INVERTITE Una paradossale tentata estorsione in piena regola, cui i De Stefano – racconta l’imprenditore – si sarebbero persino permessi il lusso di sottrarsi. «Lui mi ha detto, tanto io lo so quindi non c’è bisogno che gli diamo soldi», sottolinea l’uomo. In un primo tempo però – specifica l’imprenditore in un altro interrogatorio – lo “scambio” ci sarebbe stato. Il misterioso funzionario». in cambio di denaro, gli spiegava tutte le varie fasi, però fino ad un certo punto perché poi non glieli hanno voluto dare e quindi questo non ha detto più niente». Il seguito è coperto da un largo omissis che fa intendere che su quelle circostanze le indagini sono in corso.

CAPACITÀ STORICA Ma i tentacoli del clan all’interno delle istituzioni non si sono allungati solo di recente. Per i De Stefano, trovare orecchie indiscrete e lingue lunghe è capacità radicata. Lo racconta anche l’imprenditore che ha raccontato ai magistrati la personale agonia – esistenziale ed economica – cui gli arcoti lo hanno condannato. Interrogato dal pm Musolino, l’uomo mette a verbale che  fin dal 2005 Caponera si è mostrato in grado di conoscere con largo anticipo tanto le indagini a suo carico, come i provvedimenti in esecuzione nei suoi confronti.

 

EPIC FAIL L’imprenditore ne ha avuto prova concreta. Nel novembre 2005 aveva chiesto a Caponera di portare un camion fino a Napoli per ritirare della merce, ma – racconta al pm Musolino  – «mi ha detto “Roberto non lo so se posso salire, io intanto vado a dormire da un’altra parte e, poi, vediamo…poi quando ho visto che il camion la mattina era là ho capito che non c’era». Quella notte Caponera era riuscito a sfuggire all’arresto e darsi alla latitanza, insieme a tutti gli indagati dell’inchiesta “Number One”, fatta eccezione per Andrea Saraceno, in quel periodo ricoverato al Policlinico. Tutta colpa – ha svelato poi un’indagine della Dda – di un sottoufficiale della Guardia di Finanza, che si era lasciato sfuggire più di qualche dettaglio.

 

INFORMAZIONI APPROFONDITE Ma i De Stefano – afferma l’imprenditore – sono tuttora in grado di avere informazioni che non dovrebbero avere. «Secondo me – dice – lui aveva pure dei fascicoli perché vedevo che si portava dei fascicoli, che si leggeva dei fascicoli e poi chiudeva. Documenti della Questura sicuro». Un’informazione di cui l’uomo si dice certo. «Sapevano, sapevano avevano già informazioni», ci tiene a sottolineare l’imprenditore. Dopo, altri omissis coprono il prosieguo del verbale.
Ma per la Dda, che ha ordinato il fermo di Orazio De Stefano, del nipote Paolo Rosario, del cugino di questi Paolo Caponera e di suo zio Giuseppe Praticò, come dell’ex dipendente comunale Andrea Saraceno, le dichiarazioni dell’uomo hanno senso e fondamento. Anche perché – si legge negli atti –  si incastrano con la straordinaria capacità di sottrarsi ai controlli previsti dal regime di libertà vigilata, mostrati da uomini come Orazio De Stefano o il nipote Paolo Rosario, da poco tornati a piede libero. 

LA MAPPA DEI COVI Due soggetti che già in passato – e per diversi anni – sono riusciti a sottrarsi all’esecuzione dei provvedimenti custodiali emessi nei loro confronti, anche grazie ad una rete pressoché infinita di “covi”. Di quei “luoghi sicuri” ha parlato anche il pentito Salvatore Aiello, che per gli inquirenti ha disegnato una “mappa” che va da Pellaro a Catona, «ma io – spiega – è 4 anni che manco». Altri rifugi potrebbero essere stati creati. E la Dda non vuole rischiare di veder vanificati anni di lavoro. 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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