Continua a suscitare reazioni l’appello lanciato da Antonino De Masi dalle colonne del Corriere della Calabria (lo trovate qui). A dare un prezioso contributo al dibattito è anche Vito Teti. Professore ordinario di Antropologia culturale all’Unical, dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche “Antropologie e Letterature del Mediterraneo”, Teti è autore di volumi, saggi, racconti (tradotti in inglese, francese, spagnolo), reportage fotografici, documentari etnografici e articoli apparsi su quotidiani e riviste calabresi e nazionali.
Le riflessioni, le analisi, l’ennesimo urlo di dolore e di denuncia di Antonino De Masi non mi lasciano indifferente. Nemmeno questa volta, soprattutto questa volta, perché mi pare che sia un suo accorato invito a scegliere un’altra strada, ora che anche Bergoglio rompe definitivamente con una tradizione che ha visto tanta Chiesa silenziosa, complice, tollerante. Antonino De Masi non ha bisogno di visibilità, come bene scrive il “Corriere della Calabria”, che meritoriamente dà risalto al dolore e alla speranza del coraggioso imprenditore, ma siamo tutti noi, la Calabria tutta, che ha bisogno di lui per avere quella visibilità che spesso, non senza ragioni, le viene negata. Ho avuto il piacere di conoscere e la fortuna di incontrare più volte Antonino De Masi: un uomo perbene, garbato, curioso, che ama la sua terra, nonostante tutto: una di quelle persone grazie alle quali la nostra regione afferma un’altra immagine rispetto a quelle anguste e negative che, è inutile negarlo, spesso fa di tutto per ottenere, purtroppo, con merito. Insomma è grazie a figure come Antonino De Masi (che non sono poi tante) che in casa e fuori possiamo rivendicare l’orgoglio di dirci e di sentirci calabresi. Ricordo la commozione con cui a Paraloup, il borgo in provincia di Cuneo, sede della prima banda partigiana di Giustizia e Libertà, che diede il via alla Resistenza, fummo accolti, l’affetto e l’entusiasmo di cui fummo circondati da ragazze e ragazzi di tutta Italia, dopo le parole di Antonino De Masi, don Pino De Masi, Michele Albanese, che in quel luogo mitico e storico ricevevano (dalle mani di Marco Revelli) il riconoscimento di «nuovi resistenti» da parte della Fondazione Nuto Revelli e dalla Rete del Ritorno.
UN DÉJÀ VU Mentre, però, mi accingo, con difficoltà, dovute a problemi di natura personale, a dare la mia più convinta adesione alle parole di Antonino De Masi, posso ammettere, forse, proprio perché stanco e affaticato, di vivere la sensazione di un “déjà vu” e che quanto mi appresto a scrivere, con rapidità e spontaneità, l’ho scritto tante altre volte, nei libri, quasi con le stesse parole che adesso vorrei adoperare. Affiora insomma una sorta di senso di inutilità e ripetitività in questa terra, dove le persone (tra loro intellettuali, studiosi, accademici, professionisti) hanno la memoria corta, tendono spesso a scoprire l’acqua calda, a scrivere la storia della regione a partire dagli ultimi anni, dimenticando fatiche e lotte, vizi e virtù, drammi e fortune di lunga durata in una terra “bella e amara”: luogo di “bellezze” e di “rovine”. Si fa strada anche tra le persone per bene una sorta di sfiducia e di rassegnazione dinnanzi a una realtà che non cambia e che, spesso, cambia in peggio. Un’infinità di analisi, libri, scritti, denunce, prese di posizione contro la criminalità organizzata si sfarinano e si sfilacciano in un contesto di corruzione, mentre i paesi si spopolano, i giovani fuggono, chi resta vive nella desolazione. La sensazione terribile è che (a dispetto di iniziative anche generose) prevalga una guerra di tutti contro tutti, affiorino conflitti intestini, siano assenti progetti di condivisione e collaborazione, sganciati da pratiche clientelari e di dipendenza. Si naviga nella autoreferenzialità più fastidiosa, nella palude fetida e maleodorante dove ormai molti hanno imparato a sguazzare. Da questa situazione stagnante e asfissiante tanti (molti) tentano di ricavare utili, benefici, motivi per sopravvivere o per vivere bene e facile. Trionfano il peggior trasformismo e gattopardismo. Si affonda nel silenzio, nell’apatia, nella retorica garantista e complottista, del così fan tutti e siamo tutti uguali, o in quella complementare dell’antimafia parolaia e senza passione civile. E spesso la stagnazione economica, sociale, culturale, sfiducia, indifferenza, rassegnazione impediscono di cogliere e comprendere quanto di nuovo e positivo accade nella regione, spesso per iniziative dal basso, per merito di associazioni, gruppi locali che continuano, nonostante tutto a resistere. Soprattutto per vicinanza a De Masi, e condivisione della sostanza delle sue riflessioni, che scelgo di riproporre, senza modificare di una virgola, quanto già scritto in un mio libro del 2015 (“Terra Inquieta” edito da Rubbettino), dove riprendevo articoli e saggi di tanto tempo prima. Il senso non è, certo, quello di scadere in un fastidioso “l’avevo detto io”, se mai quello di convincermi che forse è bene non stancarsi, è giusto ripetere, ribadire, fare ascoltare la propria voce.
IL LUSSO DI PREDICARE BENE… Antonino De Masi e i lettori potranno vedere quanto certe analisi ritornano continuamente, siano comuni, con la differenza non di poco conto che i De Masi e gli Albanese pagano un prezzo enorme per il loro fare e argomentare, per la loro scelta di legalità e di giustizia, mentre molti di noi (e mi costa fatica adoperare un “noi” generico e angustamente identitario) possono permettersi il lusso di “predicare bene” e “razzolare male”, di dire e non dire, di essere per la legalità e amici e frequentatori dei corrotti e dei malavitosi, di scrivere fondi indignati dove si rivolgono, ammiccanti, a un ceto politico e dirigente sostanzialmente colluso da cui non prendono mai le distanze. Non voglio dire, certo, che scrivere, raccontare, denunciare non possano essere pratiche etiche e politiche importanti e dirompenti. Sappiamo bene come gli scritti di Saviano, Albanese e di altri possano mettere in difficoltà le mafie, che male sopportano le verità che le smaschera. Il problema è che c’è bisogno di una scrittura profonda, autentica, sovversiva, capace di fare riflettere e non quella fatta di letterine rituali che servono spesso ai retori dell’antimafia o a quanti si sentono a posto soltanto perché ripetono ritornelli insulsi, scontati, banali. Non si esige l’eroismo, e nemmeno le persone sotto scorta hanno scelto di essere eroi o si sentono eroi, ma, a tutti noi, spetta il dovere, il compito, l’imperativo morale di dire con chi si sta, da che parte si sta, e come ci si comporta di conseguenza e coerentemente, senza fare gesti clamorosi, dichiarazioni roboanti, ma con piccole ordinarie scelte quotidiane di giustizia, equità e legalità.
LA BELLEZZA DELLA SCELTA Conosco il giochino e la retorica che fanno tanti intellettuali, uomini di Chiesa, professionisti, giornalisti quando dicono che non è possibile distinguere il Bene dal Male, il bene dal male, il bianco dal nero. Lo sappiamo. Lo hanno raccontato, in maniera insuperabile, Dostoevskij e Freud (solo per citare i primi che mi vengono in mente), lo sapevano i Padri della Chiesa, i filosofi e i mistici, ma qui, credo, non si stanno facendo elaborazioni filosofiche o non si stanno scrivendo trattati di metafisica e di etica, né si tratta di ergersi a giudici che emettono condanne o assoluzioni definitive, o di trasformarsi in preti che debbono assolvere: qui, mi pare, ci viene chiesto di dire che non è vero che il bianco e il nero sono uguali; si tratta di distinguere e di assumersi (come hanno fatto gli uomini e le donne della Resistenza) la durezza e la bellezza della scelta. La scelta ci rende uomini liberi e responsabili e, forse, ci può assegnare anche la facoltà di
essere, nel nostro cuore, indulgenti, ma intransigenti nella vita di ogni giorno. Antonino De Masi ci ricorda quanto rivoluzionarie, innovative, dirompenti siano le parole di Papa Bergoglio, che adesso porta a conseguenze estreme posizioni già annunciate in Sicilia e in Calabria, e coglie bene il valore morale e simbolico di una “scomunica” che potrebbe mettere in difficoltà, contrastare con efficacia, le mafie e i sistemi di corruzione. Sono d’accordo con lui. Vedo, però, anche quanti, pure all’interno della Chiesa, si oppongono, spesso in maniera aperta, alle posizioni di Bergoglio (quando parla di ambiente, di guerra, di fame, di corruzione, d’ingiustizia, di grandi divari tra pochi ricchissimi e miliardi di poverissimi del pianeta) e sento tante resistenze (variamente espresse) al Vangelo secondo Bergoglio. Conoscendo la capacità di mimetizzarsi, camuffarsi, trasformarsi come i vampiri, adattarsi delle mafie non escluderei che domani a somministrare la “scomunica” possa essere qualcuno che, invece, dovrebbe essere tra gli scomunicati. La ’ndrangheta è una struttura articolata, un insieme complesso di elementi che si rinviano, un «fatto sociale totale», che tutto contagia e contamina, che riguarda a vario titolo la società, la cultura, la religione, la mentalità della regione. La ’ndrangheta si configura come una sorta di «catastrofe» naturale e storica che ha devastato e devasta la Calabria e i luoghi dove si è ramificata. Una miscela di arcaicità e modernità, di fattori criminali locali e globali, che hanno occupato enti pubblici, comuni, anche giornali e media. E c’è da temere che le scomuniche religiose alle mafie, pure importanti, decisive, simboliche, capaci di fare riflettere le persone e la gente, forse non bastano a sconfiggere e a isolare organizzazioni criminali che hanno mille volti, mille maschere, mille capacità mimetiche.
LA RIVOLUZIONE DI BERGOGLIO Non amo la retorica dell’«altrismo», del «Sì, però, ci vuole ben altro», che mi sembra un modo di rinviare sempre la soluzione dei problemi e di alimentare disimpegno e disinteresse per le piccole grandi cose in attesa di Godot che non arriva mai. E tuttavia, in questo campo, è bene non raccontarci menzogne, essere duri e crudi fino all’estremo. Per questo bisogna dire che ogni segno, atto, gesto vanno colti nella loro necessaria essenzialità, nel loro valore anche minuto. E bisogna dire che il contrasto alle mafie non può prescindere da scelte politiche opposte a quelle attuali, da progetti di riscatto e di liberazione, affermando nuove culture, un nuovo modello di sviluppo a livello locale e globale, nuove pedagogie, nuove etiche nelle scuole, nelle parrocchie, nelle piccole e grandi comunità, nelle famiglie. Il contrasto alle mafie richiede provvedimenti legislativi e giudiziari dirompenti e una lenta, paziente, faticosa opera da parte dei rappresentanti di uno Stato, non distratto, non compromesso, non corrotto ma democratico, autorevole e credibile tendente a trovare consenso nella popolazione e a disgregare quella zona grigia dove finora le mafie hanno trovato terreno fertilissimo. Non è un problema che riguarda soltanto la Calabria, ma tante regioni del Sud e del Nord, di varie parti del mondo. E non è un problema che può essere separato, come Bergoglio dice chiaramente, dalla corruzione dominante, dalla grande ingiustizia sociale, dalla miseria e dalla fame, dal modello capitalistico vigente a livello globale. La scomunica potrà avere efficacia se sostenuta da «nuovi missionari» di giustizia, di pace, di verità, come Bergoglio afferma in molti suoi discorsi. La domanda, in tono sommesso, con amore per questa terra, a quanti pensano di avere ancora il senso del pudore, di non avere rinunciato a provare vergogna, di non essere indifferenti a parole come responsabilità e scelta, a quanti conservano un principio di realtà, una traccia di onestà intellettuale, un sussulto morale, un’antica e non svenduta passione civile, diventa: davvero si può immaginare che il malaffare, la corruzione, la criminalità verranno contrastate con qualche parata “super partes” e trasversale dove camminano assieme le vittime della criminalità e quanti (politici, amministratori, professionisti, opinionisti) non brillano certo per scelte improntate a legalità e a moralità, capacità progettuale, volontà di invertire lo stato delle cose?
L’amore vero per la terra richiede non lamentela, autoesaltazione, autoreferenzialità e compiacimenti, annunci e promesse infinite, ma cura, dedizione, generosità, lucidità, coraggio, pensiero libero, senso etico. Per questo, forse, come ci incoraggia, con senso civico ed etico, Antonino De Masi, che ringrazio come studioso e abitante di questa terra, è bene cogliere il carattere rivoluzionario delle posizioni di Bergoglio ed è doveroso parlare, dire la nostra, non stare silenziosi e muti, dire, a parole e nel quotidiano, da che parte si sta e che il bianco e il nero, la luce e le tenebre, il bene e il male – pure con tutte le sovrapposizioni possibili – non sono, davvero, la stessa cosa.
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Memorandum su ’ndrangheta, Chiesa e religiosità popolare
«…La Chiesa in passato ha preferito invitare a comportamenti più adeguati, a cancellare usanze e riti tradizionali in nome dell’interiorità e della spiritualità, alle quali però non ha saputo educare; adesso deve porsi il problema del disagio e dello spaesamento, di cosa giovani e ragazze entusiasti, animati dalla voglia di restare e di cambiare il mondo, anziani, emigrati che tornano per la festa, possano sentire. Sono convinto che il vescovo della diocesi di Oppido, che ho conosciuto nella sua attività pastorale, saprà trovare, assieme ai parroci e alle comunità come Oppido ricche di storia, tradizioni, memorie e risorse, la via migliore per restituire i riti alla gente. La ri essione e le prese di posizione simboliche sono e efficaci soltanto se restituiscono alle popolazioni la possibilità di non inchinarsi. Sull’inuti- lità dei riti della ’ndrangheta e sulla necessità di un pubblica denuncia di queste pratiche, a pochi giorni dalla sua prima visita in Calabria, Papa Bergoglio ha usato parole nette: “I gesti esteriori di religiosità non bastano per accreditare come credenti quanti, con la cattiveria e l’arroganza tipica dei malavitosi, fanno dell’illegalità il loro stile di vita”.
Molti retori dell’identità o esa, coloro che danno la colpa sempre agli altri, hanno parlato di criminalizzazione da parte della stampa e dell’opinione dominante al Nord, non accorgendosi che le posizioni di denuncia più aspre, più dolenti, più vere, più motivate sono state prese al Sud. Diventa però intollerabile il fatto che si riduca la dimensione religiosa, comunitaria, intima delle popolazioni a un fatto di mera criminalità. Significherebbe ammettere che la criminalità – molto più dei retori della tradizione – ha saputo interpretare il mutamento, presentandosi come custode delle tradizioni, strumentalizzandole e stravolgendole. Non ci sono scorciatoie in questa battaglia culturale e sociale, che deve partire dalla constatazione che l’inchino ormai è diventato una sorta di carattere di gruppi di potere, di professionisti, di politicanti che hanno contagiato e devastato l’intero tessuto socio-culturale di una terra, del Sud e dell’Italia. La criminalità si è alimentata, affermata, legittimata anche grazie a questo degrado morale e culturale, etico e politico, di vasti strati della società. I luoghi comuni del “così fan tutti”, “tutti rubano”, “tutti si inchinano”, “ottengono solo quelli che hanno santi protettori”, generano nelle persone perbene e nei giovani apatia, rassegnazione, indifferenza, disgusto, indignazione, desiderio di fuga.
C’è una cappa mediatica, un’angusta opa identitaria sulla Calabria. Te ne accorgi quando vai fuori, in Italia e all’estero, e provi un senso di sollievo, mis
to ad amarezza, nel non leggere (su carta o su tanti siti web) commenti, ri essioni sulle retoriche identitarie che a ossano la regione, ne annullano il senso critico, il vero, problematico e sofferto sentimento dell’appartenenza che non crede alla lamentela, al rivendicazionismo immotivato, al rifiuto di ogni assunzione di responsabilità. C’è un cerchio che non è nemmeno magico – non esistono leader autorevoli o progetti consapevoli cui legarsi – ma è soltanto una prigione, una trappola, un sotterraneo senza uscita. È fatto da commentatori, studiosi, giornalisti che, più o meno in buona fede, più o meno consapevolmente, più o meno legati tra di loro, si fanno portavoce di una calabresità pelosa. Siamo in presenza delle piccole vedette dell’identità proclamata, risentita, rancorosa, mai propositiva: la loro narrazione è interamente costruita sulla difensiva. Provo a riassumere, in maniera riduttiva e schematica, le «tesi» che mi capita leggere su giornali, riviste, blog, social network, spesso stancanti nella loro inconsistenza analitica, nella loro incapacità di sguardo prospettico, nella loro ripetitività. Cosa sostengono i portavoce di una presunta identità assediata?
· La Calabria è oggetto di attacchi, incomprensioni, calunnie esterne e questo spiega la sua «arretratezza», la sua marginalità.
· Il problema della Calabria non è la’ndrangheta, non è la malapolitica, non sono i calabresi, ma sono gli altri, la stampa del Nord, chi non comprende una regione bella e ricca, accogliente e ospitale.
· La ’ndrangheta del passato aveva dei valori popolari ed era anche risposta all’aggressione dei colonizzatori esterni.
· La’ndrangheta è una continuazione del brigantaggio ed esprime anche i sentimenti di giustizia delle popolazioni. Intendiamoci. Non è che non esistano le calunnie esterne. Io stesso ai pregiudizi e agli stereotipi anticalabresi e antimeridionali ho dedica to diversi lavori a partire dagli anni ’90. Così come vanno segnalate, quando ci sono, le incomprensioni delle stampa del Nord sui fenomeni di malapolitica. E ancora: non è che non si possano individuare somi- glianze e continuità tra banditismo, forme di ribellismo nella società tradizionale, brigantaggio a carattere sociale e politico, spesso con connotazioni antagoniste e ’ndrangheta. Il punto è che non devono essere ridotte a narrazione ideologica, a semplificazioni non documentabili o, peggio, documentate rivolgendosi esclusivamente allo sguardo esterno dei viaggiatori stranieri. Occorre distinguere, contestualizzare, assumersi il compito di approfondire e problematizzare fenomeni socio-culturali diversi, emersi in contesti e periodi storici differenti.
· In questa lettura, tutti i guai della Calabria e del Sud cominciano con l’unificazione nazionale: prima c’era l’Eden, lo “sviluppo”, la primitività genuina, adesso tutto è stato corrotto dagli altri, dai forestieri, dai nemici esterni.
Come se la Calabria e il Sud non avessero partecipato, con i loro ceti politici e dirigenti, al degrado, all’avvelenamento, alla corruzione del Meridione e dell’intero Paese. Giudici, studiosi, giornalisti seri che amano questa terra, ma non possono tacere, non possono assistere silenziosi non solo a questo degrado, ma anche alle spiegazioni che ne vengono date, spesso sono stati considerati traditori e calunniatori della loro terra, alla quale hanno dedicato, magari, una vita e, spesso, la stessa vita. Il bersaglio dichiarato di molti commentatori è a volte la retorica dell’antimafia. Ora che l’antimafia abbia costruito anche interessi di gruppi di potere, palesi e occulti, creato spazi di corruzione, collocazione e visibilità poco edificanti, è sotto gli occhi di tutti. Ma ridurre l’opposizione vera alla criminalità a un gioco di potere complementare alla delinquenza, diventa ingeneroso, calunnioso, pericoloso per quei giovani che non vogliono tacere (non è senza significato che una delle più attive associazioni nate di recente in regione abbia scelto di chiamarsi “Reggio non tace”), per magistrati e forze dell’ordine che sono in prima linea nel contrasto alla criminalità, per intellettuali, professionisti e persone comuni che vivono nel rispetto delle regole, onestamente, e sono in prima linea nella difesa della legalità.
La parola magica che accomuna tanti è “garantismo”: come se il garantismo possa diventare uno slogan, un invito ad assolvere i criminali e i loro sodali e sostenitori, e non una pratica democratica, una conquista civile e illuminata, valida sempre e per tutti. E invece i predicatori del garantismo sono garantisti con i giudici indagati e condannati, mai con i magistrati che contrastano il crimine, rischiando la vita, quotidiana- mente. Il principio democratico viene strumentalizzato, prestandosi a narrazioni che sconfinano nella propaganda. Il garantismo è per quella Chiesa perdonista e predicatoria e non per quei parroci coraggiosi e veri (ricordo, tra i tanti che operano in Calabria, don Pino De Masi e don Giacomo Panizza) che contrastano, nei fatti, non solo a parole, la criminalità e invitano alla legalità. Il garantismo è subito disponibile per gli imprenditori che rubano il danaro pubblico, sciupano i fondi europei, si arricchiscono nel giro di pochi mesi e mai per i giovani senza lavoro e che perdono il lavoro. Il garantismo, almeno per qualche commentatore, è sempre per i carnefici, mai per le vittime. Le garanzie vengono invocate, anche giustamente, per ogni cittadino, ma ci sono cittadini «più cittadini» degli altri. Se qualcuno ha commesso un reato, può stare più tranquillo di chi lo ha subìto. Adesso – dopo silenzi e omissioni della Chiesa – la presa di posizione e le parole profonde e vere del Papa mostrano che il Re è nudo, che non basta coprirlo con commenti che ubbidiscono a interessi più o meno palesi, o semplicemente a bisogno di visibilità, al gioco di spararla grossa, ad analisi in cui si sostiene tutto e il contrario di tutto, a commenti nei quali, in maniera schizofrenica, si passa dall’indignazione parolaia estrema all’autoassoluzione più vergognosa. Quanto accaduto a Oppido – ma c’era bisogno di Oppido? Non bastavano i fatti di Sant’Onofrio e Polsi, le denunce e le analisi apparse in articoli, saggi e libri (…) – ci dice quanto radicate siano l’assuefazione, l’apatia, la confusione.
La Calabria – in questo quadro generale e locale di crisi, di dipendenza, per la fragilità del suo tessuto economico e sociale – rischia di affondare e di morire per i troppi inchini che caratterizzano diversamente tutti i ceti sociali. Non si può fare, certo, la predica ai giovani disoccupati in attesa di lavoro, a quanti invecchiano aspettandolo, non la si può fare da posizioni tranquille e sicure. Resta che l’inchino è una forma compiacente e interessata di rapporto col potere che attraversa l’intera società calabrese, con la speciale responsabilità di coloro che hanno svenduto la propria intelligenza, la propria professionalità, la propria libertà, in attesa di favori, frequentando tutti gli assessorati, salvo poi brontolare in silenzio, rivendicare verginità e purezza. Per carità di patria, per paura del peggio, per non calunniare la Calabria o il proprio partito, perché si “tiene famiglia”, si sono fatti troppi mugugni in privato e poche scelte cristalline all’aria aperta. Qualcuno ha ingenuamente pensato che qualche volta fosse meno peggio essere accomodanti, comprensivi, mediatori, poco critici per paura di essere chiamati disfattisti. Non è servito a nulla: questa terra naviga a vista, senza meta, senza progetto, senza speranze e senza guide credibili, con clan politici litigiosi e conflittuali, all’interno dei quali l’inchino viene praticato, studiato, perfezionato, sublimato, ostentato, poi rinnegat
o, e ancora ripetuto, ra nato sempre con spiegazioni nobili. Sento gli strali di chi urla al pessimismo, alla non giusta considerazione della bella e ospitale Calabria. Si dica, però, dove tanta retorica, tanta carità pelosa, tanto decantare un’inesistente incontaminata e primitiva Calabria, hanno condotto. Gli assertori delle magnifiche e progressive sorti prendano davvero posizione, indichino soluzioni, siano capaci di elaborare progetti in cui le positività diano frutti veri e non frutti impuri della miscela delle peggiori tradizioni e della peggiore modernità.
È importante dialogare, senza posizioni precostituite, con gli esponenti più lucidi e in buona fede di questo mondo che fa o si illude di fare opinione, invitando tutti a un maggiore sussulto, a una dignità, a raddrizzare la schiena. A quanti pensano che inchinarsi sia una necessità, una forma di sopravvivenza necessaria e ineludibile, un destino ambientale e quasi genetico, vorrei ricordare quanto sono stati dignitosi i nostri padri contadini, artigiani, emigrati che hanno faticato e costruito un mondo, realizzando sogni che spesso noi gli abbiamo sciupato. Non mi convincono l’antipolitica, la solitudine boriosa, la lontananza dalle istituzioni, chiedo anzi di non avere paura di sporcarsi le mani con le azioni, le scelte trasparenti. Le mani diventano sporche anche tacendo, chiudendosi nel silenzio, lamentando senza testimoniare, inveendo senza costruire, male- dicendo senza capire la forza della benedizione. Penso che ci siano dignità e libertà di pensiero, da tutti e da tutto, da custodire, magari sbagliando e scontando il rischio e la pena dell’errore, purché guidati dalla propria coscienza e dal desiderio del bene comune. Diversamente, almeno si potrebbe perseguire la difficile e so erta pratica del silenzio, evitando il pettegolezzo (come diceva Pavese prima di suicidarsi) su una terra che in molti, in tanti, anche quelli di lei innamorati a parole e traditori nei fatti, stanno contribuendo a far suicidare.
Da “Terra inquieta. Antropologia dell’erranza meridionale”, Vito Teti (Rubbettino, 2015)
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