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«La ricchezza delle nazioni? I rifiuti»

Roma è travolta dai rifiuti. Ma non è un problema solo di Roma. Lo sono state altre città, come ricorderemo tutti. Lo è stata Napoli. E lo è stata anche Reggio Calabria. È un problema che incombe su…

Pubblicato il: 22/01/2018 – 8:15
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«La ricchezza delle nazioni? I rifiuti»

Roma è travolta dai rifiuti. Ma non è un problema solo di Roma. Lo sono state altre città, come ricorderemo tutti. Lo è stata Napoli. E lo è stata anche Reggio Calabria. È un problema che incombe su tutte le città. Più o meno, ne sono tutte potenzialmente interessate. Insomma, se Atene piange, Sparta non ride.
Al di là delle carenze, inefficienze, responsabilità nella catena politico-amministrativa di questa o quella città, su cui c’è tanta speculazione in campagna elettorale, ma anche tanta verità, il problema è di fondo. E si allunga, quindi, ben oltre la data del 4 marzo 2018, quando i cittadini saranno chiamati ad eleggere il nuovo Parlamento.
Tra le urla della campagna elettorale nessuno riesce a sentire – sarà forse perché nessuno lo dice (?) –, che l’economia sta virando verso un nuovo paradigma di sviluppo: quello della cosiddetta «economia circolare». Anche se in modo vischioso, ci stiamo progressivamente lasciando alle spalle il modello di economia fondato sull’«usa e getta», che ha caratterizzato il secolo scorso fin dal suo inizio, quando, per intenderci, cominciarono a diffondersi le lamette Gillette. Siamo a un giro di boa.
Davanti a dati che evidenziano l’esplosione dei consumi – quindi, della produzione e dei rifiuti –, il Parlamento europeo ha approvato nel marzo scorso un pacchetto di misure sull’«economia circolare» diretto a spingere il sistema industriale a ripensare il modello di produzione secondo la logica e la dinamica dell’economia rigenerativa. Quella cioè che trasforma i rifiuti in risorsa. È alle corde il modello «lineare» di sviluppo: quello cioè che segue la logica del “trova la materia prima” (sempre più rara e, quindi, costosa), “produci”, confeziona”, “consuma” e, infine, “butta”. È proprio su quest’ultimo anello della catena produzione-consumo che si sta realizzando l’inversione di tendenza.
«Non buttare, ma ricicla il prodotto usato». È il nuovo standard imposto non solo all’industria, ma anche al consumatore, secondo il paradigma che il chimico tedesco Michael Braungart, nell’ultimo ventennio del secolo scorso, ha applicato ai processi industriali, trasformandoli, per l’appunto, da lineari a circolari. Riciclare, dunque: il nuovo must.
Riciclare il 70% dei rifiuti, smaltirne in discarica non più del 5%, ridurre del 50% gli scarti alimentari: sono, in sintesi, gli obiettivi che al 2030 ha fissato l’Europarlamento nel pacchetto sull’economia circolare. A livello nazionale, il nostro governo ha quindi approvato la Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, all’esito di un lavoro che ha coinvolto le amministrazioni centrali, le regioni, la società civile e il mondo della ricerca.     
Sviluppo sostenibile. È un’idea assai complessa. E diverse sono le definizioni, o le declinazioni, del concetto di sostenibilità. Tra le più note v’è quella che nel 1987 è stata formulata nel Rapporto Brundtland dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo. È definito «sostenibile» «lo sviluppo che soddisfa i bisogni delle generazioni attuali, senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare i loro bisogni».
E, però, fatica, purtroppo, ad affermarsi, tanto a livello individuale quanto a livello collettivo, la consapevolezza che l’uso e il consumo delle risorse è un “prestito” che ci danno le generazioni future. E che dobbiamo restituire.  
Fatica ad affermarsi la consapevolezza che le nostre città, i nostri territori, sono organismi viventi, che, come tutti gli organismi viventi, consumano e bruciano energia. La consumano sotto forma di combustione di petrolio, di carbone, di altri materiali fossili. E la  bruciano sotto forma di emissioni, di rifiuti, di scarichi, di calore.
Bruciando energia, le città producono inquinamento a due livelli: a livello delle città nelle quali viviamo, e a livello globale per il rilascio nell’atmosfera dei gas ad effetto serra, che costituiscono la causa principale del global warming e dei connessi mutamenti climatici. Senza dire poi dei fenomeni di deforestazione, di consumo di suolo, ecc..
Secondo gli studi più accreditati (vedi Roberto Della Seta), le città sono un ecosistema, insieme naturale e artificiale, nel quale, da un lato, “entrano” energia, materiali, informazione (pura o incorporata in altri materiali), e, dall’altro, “escono” perché espulsi sotto forma di emissioni e di rifiuti. Un sistema, insomma, di entrate ed uscite, il cui bilancio si caratterizza nel medio-lungo periodo per uno squilibrio tra degradazione del «capitale naturale» (più rapido) e benefici in termini di sviluppo e benessere (più lenti, in quanto l’ecosistema delle città è fortemente «dissipativo»).
È su questo squilibrio che occorre lavorare e attrezzarsi culturalmente, per poter incidere efficacemente sulle attività di pianificazione, progettazione, riqualificazione e trasformazione delle città e del territorio. E, quindi, sulla qualità dell’ambiente e della vita, che sono tra loro in stretto rapporto. Proprio le città sono il terreno su cui si deve lavorare, perché è qui che si possono mettere in pratica le misure e le azioni necessarie per ridurre le emissioni climalteranti, realizzando, attraverso la decisa riduzione dell’input di energia fossile e di materiali inquinanti e dell’output di rifiuti, la giusta combinazione tra il necessario sviluppo economico-sociale e la qualità della vita.  
In un libro molto intrigante, intitolato “L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo” (Ambiente Edizioni), l’economista Kate Raworth, sostiene che non si possa superare la sfida della sostenibilità se non facendo “quadrare” i bisogni di tutti con le risorse limitate del pianeta. Ci salverà la ciambella. E ci salverà perché contiene la quantità di risorse necessaria a garantire una buona vita, fatta di cibo, acqua pulita, igiene, alloggi, servizi sanitari, energia, istruzione e democrazia. Come tutte le ciambelle degne di questo nome, anche quella dell’economista di Oxford ha il buco. Ed è il buco nel quale, purtroppo, finisce gran parte dell’umanità. Rappresenta l’anello interno della ciambella: il limite oltre il quale non si può vivere una buona vita. È privazione. All’estremo opposto c’è l’anello esterno, occupato da chi «esagera, consumando più risorse di quelle che abbiamo a disposizione e sforando i limiti planetari». L’anello su cui sono segnati i limiti ambientali della Terra, oltre i quali si sprofonda nell’inquinamento, nel consumo di suolo, nella deforestazione, nei cambiamenti climatici. Lo spazio compreso tra i due anelli è la ciambella stessa. È dentro questo spazio che può costruirsi un modello di sviluppo ecologicamente sostenibile e socialmente giusto. È lo spazio nel quale, come dice l’economista inglese, l’attività economica può soddisfare le esigenze di tutti rimanendo nei limiti dell’anello esterno, senza che nessuno sprofondi nel buco.
È in corso un dibattito molto importante sul superamento della centralità del PIL nella misurazione del benessere di una nazione. A questa misura, che valuta in termini numerici lo sviluppo, si è affiancata (o si va sostituendo?) la misura del «benessere equo e sostenibile» (BES), che calcola il livello di prosperità di una società sulla base di indici non solo economici, ma anche ambientali (il che, in senso stretto, vuol dire inquinamento, rifiuti, alterazioni climatiche, siccità, inondazioni, ecc., e, in senso più ampio, fiducia, partecipazione sociale e politica, sicurezza, servizi, editoria, fermenti culturali. In due parole, qualità della vita e capitale sociale).
Dopo che per anni il modello di sviluppo ha inseguito il profitto e la crescita infinita, è un dibattito che torna come un fiume carsico: già negli anni ’50 del secolo scorso il premio Nobel Simon Kuznets aveva teorizzato che la misura della crescita, e, quin di, del benessere non poteva farsi derivare meccanicamente dai numeri del bilancio nazionale.
La sfida è oggi quella di aggredire squilibri e diseguaglianza, riassorbendoli dentro la ciambella. Energia sostenibile, trasporti a zero emissioni, rigenerazione delle risorse e dei rifiuti. È la nuova frontiera dello sviluppo. Quella su cui si attesta Papa Francesco quando contrasta la «cultura dello scarto». «[…] il sistema industriale – afferma il Pontefice -, alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare» (Laudato sì, n. 22).  
Se questo è il quadro, il dibattito sui rifiuti d Roma, o di questa o quella città, deve alzarsi in volo, per guardare oltre le carenze, inefficienze, responsabilità nella catena politico-amministrativa. Perché è a livello più alto che si colloca la sfida dei nostri tempi. I rifiuti, parafrasando Adam Smith, possono diventare “la ricchezza delle nazioni”.
Dedicando la sua enciclica alla «cura della casa comune», Papa Francesco non ha voluto piantare una delle tante bandiere “ecologiste”, ma attaccare il modello di sviluppo. «[…] il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta»: così afferma il Papa. Su questi temi la sinistra, in particolare, dov’è rimasta? Se c’è, è bene che batta un colpo. Ma, in generale, tutte le forze politiche sono chiamate a prendere posizione netta, e a stabilire, dal punto di vista culturale e programmatico, quale direzione imboccare rispetto ai mutamenti in atto. Che, essendo molto più veloci di noi, non tollerano deficit di elaborazione.

 

*Docente Università Mediterranea

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