«Signor Molè, lei ora non conta più nulla»
REGGIO CALABRIA «Lei, signor Molè, non è nessuno. È solo provato e toccato dal carcere ma non conta più nulla e questo lo sa anche lei». Requisitoria ad alta tensione nell’aula della Corte d’Assise d…

REGGIO CALABRIA «Lei, signor Molè, non è nessuno. È solo provato e toccato dal carcere ma non conta più nulla e questo lo sa anche lei». Requisitoria ad alta tensione nell’aula della Corte d’Assise del tribunale di Palmi, dove ieri il pm Roberto Di Palma ha chiesto la condanna per gli imputati del procedimento “Mediterraneo”, scaturito dall’inchiesta che ha che ha fornito la fotografia più attuale della cosca Molè, storica famiglia mafiosa della Piana, stritolata dallo scontro con il clan Piromalli sotto la cui ala un tempo era cresciuta e costretta a spostare il baricentro dei propri interessi e affari 600 chilometri più a nord, ma con testa e direzione saldamente e coscientemente piantati nella Piana di Gioia Tauro.
L’ATTACCO DEL BOSS Prima che il pm potesse pronunciare le richieste di pena, il boss, don Mommo Molè, ha chiesto la parola per fare dichiarazioni spontanee. In videocollegamento dal carcere in cui è detenuto, il capoclan si è lanciato in una – poco dignitosa, a dire la verità – lamentazione, durante la quale ha accusato la Dda reggina di aver messo in piedi una vera e propria persecuzione nei suoi confronti, come nei confronti della sua famiglia. «Vi piace vincere facile, eh. Sempre con noi ce l’avete, vi volete fare pubblicità sulle nostre spalle», ha gridato al pm Di Palma, che lo ascoltava dall’aula di Palmi.
PERSECUZIONE Insomma, a detta del boss, lui e la sua famiglia sarebbero dei perseguitati, impossibilitati persino a parlare durante le visite in carcere «perché io non sono un padre che parla con i figli, ma un mafioso che comunica ordini ai suoi affiliati». Una premessa questa all’ampiamente prevedibile autodifesa di don Mommo, che forse non fidandosi troppo dei suoi legali, ha preferito provvedere personalmente a tentare di smontare le accuse che la pubblica accusa gli muove. Il tentativo però si è mestamente arginato nell’accusa di travisare i fatti, cristallizzati in intercettazioni, attività tecniche e prove documentali, tutte ampiamente riscontrate.
UN MAFIOSO CHE PARLA CON ALTRI MAFIOSI A ricordarglielo è stato il pm Di Palma, che appena il boss ha concluso ha preso la parola per fare la propria requisitoria, durante la quale ha anche voluto rispondere a Molè. «Noi – ha detto Di Palma – la trattiamo per quello che è, signor Molè. Un mafioso. E trattiamo i suoi figli per quello che sono, mafiosi. E questo non lo diciamo noi ma lo affermano diverse sentenze che vi hanno visti condannati». Parole nette, dure, al pari di quelle a seguire. «Non è assolutamente vero, signor Molè, che lei in carcere parla in maniera chiara e libera perché sa che ci sono le videocamere. Forse lei lo ha dimenticato, ma io no – e lo sa anche il tribunale – ma nel processo “Cent’anni di storia” è emerso che lei e la sua famiglia usavate lo stesso libro per mandarvi messaggi in codice».
«LEI NON È NIENTE» «Un processo che il pm Di Palma, veterano delle indagini della Piana, conosce bene. Come bene conosce i Molè, più volte finiti al centro delle sue indagini. «Non ce l’abbiamo con lei, signor Molè. Noi facciamo indagini e il nostro scopo non è certo farci pubblicità o acquisire notorietà. Se fosse vero, considerato che l’arresto ogni due mesi, dovrei essere procuratore nazionale e invece sono un semplice pubblico ministero – ha detto Di Palma, mentre nel sito riservato il boss si agitava e l’aula sprofondava in un silenzio di tomba –. Lei, invece, signor Molè, non è nessuno. Come vede, qui non ci sono giornalisti, non ci sono telecamere perché lei, signor Molè, non conta più niente».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it