VIBO VALENTIA «Il 30 ottobre 2017 il signor Francesco Vinci ha subìto un’aggressione violenta. Stava entrando nella propria macchina quando gli si avvicinano Domenico Di Grillo, che brandiva un forcone, sua moglie Rosaria Mancuso e il genero Vito Barbàra. Barbàra gli punta una pistola alla pancia e, intimandogli di “smetterla di fare il dritto”, lo fa scendere dall’auto. Poi passa la pistola al suocero, prende il forcone e comincia a colpirlo fino a fracassargli la mandibola. Nel frattempo anche la Mancuso – sorella dei capi dell’omonima cosca di ‘ndrangheta Giuseppe, Francesco, Pantaleone e Diego, ndr – lo colpisce con un bastone. Quando tutto finisce Francesco Vinci chiama la moglie. Arrivano anche i carabinieri e l’uomo racconta quello che gli è accaduto. Nel trasporto verso l’ospedale perde i sensi e viene ricoverato in terapia intensiva». Vengono aperte delle indagini per lesioni gravi, spiega l’avvocato della famiglia Vinci, Giuseppe Antonio De Pace, che racconta al Corriere della Calabria la versione dei fatti dei suoi assistiti facendo presente il modus operandi degli aggressori e gli apparentamenti mafiosi. Per questo, all’epoca, aveva chiesto l’applicazione dell’aggravante mafiosa e il conseguente, immediato arresto degli aggressori. Ma la richiesta «cadde nel vuoto».
L’AUTOBOMBA Domani Francesco Vinci verrà sottoposto alla ricostruzione del tallone. È ricoverato al Centro grandi ustionati di Palermo dopo essere sopravvissuto, il 9 aprile scorso, all’autobomba che ha fatto saltare in aria la Ford Fiesta sulla quale viaggiava con suo figlio Matteo, 42 anni, che si trovava alla guida, mentre tornavano da lavori in campagna. Niente da fare per Matteo, l’esplosione gli ha dilaniato le gambe, uccidendolo probabilmente sul colpo mentre il suo corpo veniva divorato dalle fiamme. La bomba collocata sotto la Fiesta è stata azionata con un telecomando a distanza. Francesco Vinci ha tentato di tirare fuori suo figlio ma alla prima esplosione teleguidata sono seguiti altri scoppi: il carburante, la batteria, le gomme. Vinci padre è stato scaraventato fuori dalla macchina.
Dopo questo episodio, feroce ed eclatante, l’avvocato De Pace dichiara: «Abbiamo sollecitato gli investigatori e l’autorità giudiziaria ad applicare l’aggravante mafiosa anche all’episodio dell’aggressione del 30 ottobre scorso». Ascoltato dal sostituto procuratore della Dda di Catanzaro, Andrea Mancuso, De Pace, da difensore della famiglia Vinci, trae le sue somme: «Il 50% del percorso investigativo è acquisito: si è trattato di una ammonizione alla famiglia di smetterla di resistere alle angherie e ai soprusi dei Mancuso. Manifestazioni continue di arroganza e provocazione». Angherie e soprusi per la terra. Regolamento di confini e una causa possessoria per una particella di terreno di «40/50 metri quadri».
MA LEI HA PAURA? «Ma lei ha paura?», sono state queste le prime parole che la signora Rosaria Scarpulla, madre di Matteo e moglie di Francesco Vinci, ha rivolto all’avvocato De Pace quando si sono incontrati in un’aula di tribunale. Era scettica. Era il 2014 e De Pace si trovava per puro caso, racconta, nell’aula di tribunale nella quale di discuteva la direttissima della rissa – che la famiglia Vinci continua a sostenere fosse un’aggressione subita – tra i Vinci e i Mancuso. Le due parti erano state separate: i Vinci (Matteo, Francesco e Rosaria Scarpulla), contusi e malconci, erano nel gabbiotto e i Mancuso (Rosaria Mancuso, il marito Domenico Di Grillo e la figlia Lucia Di Grillo) sui banchi, guardati dai carabinieri. I Vinci erano difesi da un avvocatessa d’ufficio giovane e inesperta che di fronte a quel caso chiede aiuto a De Pace. L’avvocatessa non ha intenzione di continuare a seguire la causa ma De Pace sì e si presenta alla famiglia. «Ma lei ha paura?», chiede memore delle passate difese la signora Scarpulla. «No», risponde De Pace che da allora diventa testimone, ci racconta, «delle manifestazioni continue di arroganza e provocazione». Come l’incendio di una piccolo magazzino nella primavera del 2017 e, qualche mese dopo, l’aggressione violenta del 30 ottobre a Francesco Vinci. «Una via crucis nel corso della quale non vi è stata una partecipazione seria da parte dello Stato», racconta De Pace. L’avvocato è un fiume in piena: «La cosca Mancuso per ragioni di vendetta o ritorsione ha messo nel mirino questa famiglia, che non si piegava, con l’azione dell’autobomba e, prima, con altre azioni».
LE CAUSE CIVILI Nel 2016 i Mancuso intentano una causa possessoria per una particella di terreno. I Vinci si oppongono e vincono il primo step della causa civile al quale segue il reclamo dei Mancuso.L’ultima udienza è stata il 6 dicembre scorso con l’escussione di un testimone per parte. Il testimone dei Mancuso, racconta De Pace, prima avrebbe riportato una versione per poi, messo alle strette, ritrattarla. Uno “smacco” per i Mancuso. I Vinci non recedono di un passo ed è questa tenacia, secondo l’avvocato, «la goccia che ha fatto traboccare il vaso».
«MATTEO ERA UNO DI NOI» «Era laureato in biologia ma non riusciva a sistemarsi nel suo settore perciò non disdegnava di fare qualsiasi lavoro per portare il pane a casa – racconta De Pace –. Ha lavorato come cameriere in un villaggio turistico, ha fatto il rappresentante di medicinali, prima di morire lavorava come cameriere al bar Belvedere di Pizzo. Era mite, mi creda, e non aveva frequentazioni che non fossero sane». Oggi gli accertamenti biologici sul suo corpo proseguono e andranno avanti per settimane prima che si possa pensare ai funerali. Ma De Pace insiste perché il giovane riceva i funerali di Stato. «Perché – spiega – quello che è accaduto non è un semplice fatto di cronaca: si è trattato di un attentato terroristico-mafioso, di un fatto politico perché ha colpito la cittadinanza, la polis. Matteo era uno di noi, uno che si dava da fare per trovare un lavoro. Non era avulso dalla nostra realtà. Era un eroe borghese e merita i funerali di Stato».
LA SOLIDARIETÀ Dopo la bomba, che deflagrando ha attirato l’attenzione dei media nazionali, racconta De Pace, la famiglia Vinci ha ricevuto attestati di solidarietà da più parti. «Avvocati di altre regioni si sono mostrati disponibili a dare una mano – dice De Pace – così come Francesco Molinari, ex parlamentare e già componente della Commissione parlamentare antimafia. Anche i vertici dei carabinieri e il prefetto di Vibo, Guido Longo, si sono mostrati attenti». «Non è un fatto di cronaca – ribadisce De Pace – è un attentato che ha colpito tutti noi».
Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it
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