SAN FERDINANDO Un’inchiesta seria che sia in grado di rendere giustizia ad un ragazzo ucciso senza perché. Il ritorno della sua salma in Mali, dove lo attendono la moglie e la figlia di 5 anni. La determinazione ad affrontare seriamente la situazione di sfruttamento e ghettizzazione che vivono i braccianti della Piana e che sia in primo luogo il neoministro del Lavoro, Luigi Di Maio, ad affrontarla con una visita in tendopoli. Sono queste le richieste che l’Usb ha avanzato con la voce del suo dirigente Aboubakhar Soumahoro al termine di una giornata che ha visto sfilare per le vie di San Ferdinando la rabbia, l’orgoglio, il dolore e lo sdegno dei braccianti.
IL MOTORE DELLA PIANA L’ennesimo lutto che ha colpito la comunità con l’omicidio di Soumayla Sacko, ucciso da un colpo di fucile sparato senza un perché da un cecchino ancora senza nome, ha fatto da detonatore alla rabbia accumulata in anni di sfruttamento. I più lo sanno. Senza le loro braccia, senza il loro sudore, la Piana si ferma. Nessuno raccoglie frutta, ortaggi, verdure nei campi. Tutto rimane a marcire nelle piantagioni. La maggior parte dei braccianti italiani che figura nelle liste dell’Inps non sono che fantasmi, buoni per strappare indennità di disoccupazione, di maternità, di infortunio. Basta un datore di lavoro compiacente o magari una cooperativa agricola messa su alla bisogna, un piccolo investimento per pagare i primi giorni di contributi e il gioco è fatto. Per gli altri 265 giorni paga lo Stato. Tanto a lavorare ci vanno “i niri”. Pagati a cassetta di frutta, verdura o ortaggi raccolta, a giornata, confinati nella terra di nessuno della zona industriale, in quelle tendopoli che – di emergenza in emergenza – continuano a essere definite “soluzioni temporanee”.
L’APPELLO DEL PREFETTO Certo, la situazione non è quella di anni fa, quando la baraccopoli si estendeva a vista d’occhio, costellata da piccole e grandi discariche. «Non facciamo di tutta un’erba un fascio – dichiara in serata il prefetto Michele di Bari, arrivato a San Ferdinando insieme al Questore Raffaele Grassi e ai comandanti provinciali della Guardia di Finanza, Flavio Urbani, e dei Carabinieri, Giuseppe Battaglia- Tanto si deve fare ancora per la tendopoli di San Ferdinando ma tanto è stato fatto . Questo non lo dobbiamo dimenticare. Sono consapevole che le condizioni attuali della baraccopoli non siano ottimali. Nessuno vuole la baraccopoli in questo stato, non è questa l’accoglienza che vogliamo dare. Il nostro obiettivo – ha aggiunto – è chiudere la baraccopoli, tutelare i lavoratori e la legalità. Dobbiamo lavorare insieme per questo».
L’ETERNA TENDOPOLI Ma le tende ci sono ancora. Quelle nuove, inaugurate meno di un anno fa, in un campo monitorato e controllato, con badge e identificazione all’ingresso, container docce e cucina. Quelle nuovissime, messe su dalla Prefettura a ridosso della prima come soluzione tampone dopo l’incendio. E quelle più nuove ancora, ricostruite dai migranti dopo l’incendio che qualche mese fa ha distrutto mezza tendopoli, portandosi via la vita di Becky Moses. Adesso sono in lamiera, per evitare che il fuoco se le porti via. E il rischio c’è, sempre. Accendere un fuoco è l’unico modo per cucinare. E costruire dei piccoli rifugi in lamiera, l’unico – spiega chi ci vive – per evitare che si propaghi. E pazienza se d’estate diventano un forno dalle temperature impossibili. «Almeno sembrano case» dice Moussa, arrivato dal Gambia qualche anno fa. «Ma Soumayla per quelle lamiere è morto. Possibile che la vita di un uomo valga meno di un pezzo di ferro?».
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LA RABBIA DEL CAMPO È la domanda che risuona più volte fra i braccianti che in mattinata sfilano in corteo. Non era previsto, né organizzato. Per la mattinata era prevista solo un’assemblea all’interno della tendopoli. Ma già in nottata, la rabbia, il dolore e la frustrazione per l’ennesimo lutto avevano fatto scaldare gli animi. Tre cassonetti di fronte alla tendopoli sono stati dati alle fiamme, subito spente dai vigili del fuoco. Ci si è attardati nelle tende a scrivere cartelli e striscioni, rimediati da vecchi cartoni trovati qui e là o pezzi di stoffa. «Non possiamo essere ghettizzati anche nella protesta, nel dolore. Devono vedere, devono capire cosa stiamo vivendo» dicevano i più. Non tutti erano d’accordo. Molti conoscono perfettamente le idee del neoministro dell’Interno Matteo Salvini e non vogliono fornire un pretesto per sgomberi o altre misure repressive. Ma a troppi l’assemblea convocata per mezzogiorno per discutere eventuali mobilitazioni non bastava. E neanche lo sciopero che ha paralizzato i campi della Piana e del foggiano, che su chiamata dell’Usb si è fermato in solidarietà con la comunità dei braccianti calabresi. Per questo hanno fatto pressione per scendere in corteo. La polizia, che fin dalle prime ore del mattino ha trincerato la tendopoli, ha letto bene la situazione. Ha capito che il muro contro muro avrebbe solo infuocato ulteriormente gli animi. E il corteo è stato autorizzato.
TOCCHI UNO, TOCCHI TUTTI Allo spezzone di testa, rapidamente si sono uniti altri gruppi provenienti dalla tendopoli. A piedi, o su biciclette scassate che hanno visto tempi migliori. «Se anche Soumayla fosse andato a rubare, e non lo stava facendo, perché quell’uomo non ha chiamato la polizia?”, dice un ragazzo mostrando la foto del ragazzo ucciso. «Noi – dice un altro, giovanissimo – siamo qui per lavorare. Ma ci ammazzano come animali, ci picchiano, ci maltrattano solo perché siamo africani». Cartelli improvvisati, striscioni, qualche bandiera dell’Usb. «Basta razzismo», urlano. «Giustizia, giustizia» invocano. «Tocchi uno di noi, tocchi tutti noi» affermano, chiarendo che la comunità è coesa, a prescindere da Paesi di provenienza, religioni professate, lingue parlate.
«LA PACCHIA E’ FINITA PER SALVINI» Arrivata da Roma, la delegazione dell’Usb guida e controlla il corteo. Cerca di calmare i più arrabbiati, spiega, dà la linea. Quando il corteo arriva a San Ferdinando, il dirigente Aboubakhar Soumahoro prende la parola. «A Salvini vogliamo dire che la pacchia è finita per lui, perché per noi la pacchia non è mai esistita; per noi esiste il lavoro. Sappiamo che in Calabria esiste gente che ricorda il proprio passato di migrante. Noi siamo lavoratori, italiani, africani, bianchi, neri e gialli. Abbiamo lo stesso sangue e vogliamo gli stessi diritti» dice prima di salire negli uffici del sindaco di San Ferdinando, che lo riceve insieme ai sopravvissuti e a una delegazione di braccianti. «Per noi» dice chiaramente «questa è una giornata di lotta. Soumayla era uno di noi, un nostro attivista, sempre in prima fila nei cortei e disponibile ad aiutare chi ne avesse bisogno. Era un lavoratore, non un ladro come qualcuno lo ha definito. Una persona che viveva del sudore della sua fronte ed è stato assassinato. Chiediamo verità e giustizia, e continuiamo a portare avanti le lotte che sono state le sue fino al momento della sua morte». Lotte per un lavoro dignitoso, un alloggio degno.
INDEGNA PER I MAGISTRATI, INDEGNA PER I MIGRANTI «Qualche giorno fa – dice Soumahoro – a Bari magistrati ed avvocati hanno protestato perché costretti a lavorare in una tendopoli. Per loro, non è cosa degna di un Paese civile. E allora perché ai braccianti si continuano a proporre tende e tende. Quante case sfitte ci sono nella Piana? Perché il tavolo convocato su istanza dell’Usb in Prefettura con Inps, datori di lavoro, Regione, ispettorato del lavoro è stato disertato da molti? Noi siamo i primi a voler uscire dalla gabbia del caporalato, creata da leggi come la Bossi Fini, ispirate – e non abbiamo paura di dirlo – all’aparthaid. Questa era la lotta di Soumayla e questa è la lotta che anche per lui vogliamo portare avanti».
UNA VITA PER GLI ALTRI Iscritto da tempo all’Usb, Soumayla era un punto di riferimento nella comunità. Da tempo viveva nella nuova tendopoli, solo una settimana fa gli era stata consegnata la nuova carta d’identità appena rinnovata. Si spezzava la schiena nei campi, poi, al termine della giornata di lavoro, si dava da fare per aiutare gli altri braccianti. Con i permessi, con un padrone di lavoro restio a pagare e che magari approfittava della poca conoscenza dell’italiano di alcuni di loro per liquidarli con una bottiglia di olio o un pezzo di formaggio. O magari anche per costruire una casa. O qualcosa che si potesse chiamare tale. «Era generoso Soumayla – dice un suo “fratello”, capelli grigi e rughe che raccontano decine di inverni- è morto per la sua generosità e per il cuore nero dei troppi che ancora non hanno capito che non importa il colore della pelle, ma solo quello del cuore».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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