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La faida di Gioia Tauro e “la legge della giungla”

L’omicidio di Francesco Bagalà si inserisce nello scontro tra i Priolo e i Brandimarte, rivali dopo la fine del matrimonio che “univa” le due famiglie

Pubblicato il: 18/06/2018 – 20:48
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La faida di Gioia Tauro e “la legge della giungla”
REGGIO CALABRIA Damiana doveva essere sua. Anche se la riempiva regolarmente di botte, la picchiava, la vessava, la torturava spegnendole sigarette sulle braccia. L’aveva sposata ed era diventata di sua proprietà. Ne era convinto Vincenzo Priolo, per questo quando la moglie, stanca di abusi, lo ha piantato per rifugiarsi a casa dei suoi, ha fatto di tutto per riprendersela. O meglio, per farsela riconsegnare. Incluso scatenare una faida, bagnata dal sangue di tre omicidi portati a termine, due tentati, pestaggi, danneggiamenti, omertà, proseguita persino dopo la sua morte. GLI ARRESTATI È questo il quadro in cui si iscrive l’omicidio di Francesco Bagalà, amico storico di Priolo e fra i soggetti coinvolti nelle spedizioni punitive e negli attentati contro i familiari della donna, rei di non volerla riconsegnare al suo aguzzino. Per la sua morte, nuove accuse hanno raggiunto in carcere i fratelli Giuseppe e Alfonso Brandimarte, di 47 e 41 anni, entrambi già detenuti, e Davide Gentile, di 29, con l’accusa di omicidio volontario (lo abbiamo raccontato qui), aggravato dalle modalità mafiose. Ma questo – si legge nelle carte – non è che un tassello della faida che fra il 2011 e il 2012 a Gioia Tauro ha visto schierati su fronti opposti i clan Priolo, orbitanti nella galassia dei Piromalli, e i Brandimarte. L’ORIGINE DELLA FAIDA Famiglie di ‘ndrangheta, in un primo tempo unite dal matrimonio fra Vincenzo Priolo e Damiana Brandimarte, nel giro di qualche anno sono divenute protagoniste di una faida feroce quando la donna è stata costretta a fuggire per sottrarsi alle continue sevizie del marito aguzzino. Forte del nome del suo casato, «testa calda» che – dicono i collaboratori – «se in paese c’era da fare una discussione la faceva», Priolo pretendeva che sua moglie gli venisse “restituita”, come se fosse una cosa priva di proprie volontà. E per questo non ha esitato a minacciare, intimidire, picchiare i familiari della donna. Principale bersaglio, il cugino della ragazza, Vincenzo Perri, che all’ennesimo pestaggio ha reagito, uccidendo Priolo. Da lì, il sangue ha iniziato a scorrere fra le due famiglie. CACCIA ALL’UOMO Pur di rintracciare Perri, datosi alla latitanza dopo l’omicidio, i suoi familiari hanno scatenato una vera e propria caccia all’uomo. Per due volte hanno spedito i loro scagnozzi in Liguria, nella zona di Vallecrosia, dove ipotizzavano si potesse nascondere e che hanno battuto palmo a palmo grazie all’aiuto di Vincenzo Marcianò e del padre Giuseppe, costole liguri delle famiglie di Gioia. «Minchia mezza Gioia è arrivata qua» esclama, intercettato, Marcianò padre. E non si trattava certo di visite turistiche. «Se lo troviamo qua – dice Vincenzo Marcianò al genitore – che non scenda più per sotto, capito?». UNA VITA PER 500MILA EURO Quelle ricerche si rivelano infruttuose, ma i familiari di Priolo non demordono. Pur di farsi “consegnare” il giovane – raccontano i collaboratori Arcangelo Furfaro, Pietro Mesiani Mazzacuva e Marino Belfiore – ai Brandimarte offrono persino 500mila euro. «Dopo la morte di Enzo, il padre di Enzo – racconta Furfaro – voleva a tutti i costi vendicare il figlio e quindi manda a Nuccio (Giuseppe Brandimarte ndr) l’imbasciata che gli dava 500mila euro se gli consegnano a Perri». ELEMENTI INSUFFICIENTI PER NUOVE ACCUSE Offerta – riferisce ancora il collaboratore – rispedita al mittente, che non gradisce il rifiuto. E risponde con un danneggiamento. Elementi che per il gip non bastano per accusare Giovanni Priolo, i suoi scagnozzi, gregari e collaboratori di tentato omicidio, ma forniscono elementi importanti per comprendere il contesto in cui quella faida è proseguita. Perché per vendicare l’omicidio di Vincenzo Priolo, il sangue ha continuato a scorrere. LA RISPOSTA DEI BRANDIMARTE Il 14 dicembre del 2011 un commando dei Priolo tenta di uccidere Giuseppe Brandimarte. L’agguato, per il quale Giovanni Priolo è già stato condannato in primo grado, fallisce, l’obiettivo viene “solo” ferito. E subito scatta la ritorsione. Ed è durissima. Secondo la procura, per “rispondere” a quell’attentato, nel giro di pochi mesi prima viene ucciso Giuseppe Priolo, poi viene dato alle fiamme il distributore di benzina della famiglia, quindi Francesco Bagalà rimane vittima di un agguato ed infine anche Giovanni Priolo si salva solo per miracolo da un attentato dinamitardo organizzato per eliminarlo. L’OMICIDIO BAGALÀ E dell’omicidio di Francesco Bagalà – ne sono certi i magistrati – i responsabili sono i fratelli Brandimarte e il nipote oggi 29enne Davide Gentile. A rivelarlo sono state non solo le immagini delle telecamere di videosorveglianza che hanno permesso agli investigatori di ricostruire con precisione “il film” dell’inseguimento e dell’omicidio del giovane, ma anche i pentiti Furfaro e Francesco Rocco Ieranò. E quest’ultimo dell’agguato ha avuto cognizione diretta. LE CONFERME DEI COLLABORATORI «La mattina di Natale dell’anno precedente al mio arresto del 2013, Alfonso Brandimarte venne al ristorante Il Fungo con suo nipote Davide Gentile, per chiedermi il favore di fargli fare la doccia perché aveva ucciso a Gioia Tauro un ragazzo. Ricordo – dice Ieranò – che avevano il timore che venisse riconosciuta la macchina del suocero di Gentile, che era un Pajero grigio». La notte prima, proprio un Pajero grigio aveva inseguito e affiancato l’auto di Bagalà, ucciso da diversi colpi di pistola sparati a bruciapelo. «Alfonso (Brandimarte ndr) mi disse che voleva uccidere tutti i Priolo, almeno tutti quelli coinvolti nel litigio con Perri. Alfonso, per come lo conosco io, era un tipo che pagava gli altri per uccidere le persone, Davide Gentile invece era un tipo che uccideva». LA GIUNGLA DI GIOIA TAURO Ma l’ordine di uccidere Bagalà, in quei mesi così terrorizzato da girare armato persino nella biblioteca e nella sala studi dell’università di Messina, per i magistrati è arrivato dal capofamiglia, Giuseppe Brandimarte, determinato a punire chiunque avesse osato attentare alla sua vita. E al suo prestigio di capoclan. «L’omicidio di Bagalà Francesco – si legge nelle carte – lungi dal rappresentare una mera vendetta per il ferimento di Giuseppe Brandimarte, ha rappresentato la reazione necessitata di un gruppo che non vuole essere soccombente e recessivo verso un altro gruppo criminale e che, pertanto, deve reagire ad un affronto subito con una reazione uguale e contraria in termini di eliminazione fisica degli avversari». Una sorta di legge della giungla, di matrice chiaramente ‘ndranghetista, che a Gioia Tauro ha regolato la vita e la morte tra il 2011 e il 2013.

Alessia Candito a.candito@corrierecal.it

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