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Vent’anni di cattivi odori, la “condanna” dei rendesi

I cittadini protestano davanti all’impianto di depurazione di contrada Coda di Volpe. Hanno paura del raddoppio della struttura: «Non ce la facciamo più»

Pubblicato il: 25/07/2018 – 20:58
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Vent’anni di cattivi odori, la “condanna” dei rendesi
RENDE «No alla puzza, no agli odori, no al raddoppio dei depuratori». Lo slogan cadenzato dei cittadini che hanno manifestato il loro dissenso davanti ai cancelli dell’impianto di depurazione di Coda di Volpe racchiude l’esasperazione di chi da oltre venti anni convive con gli odori nauseabondi che dall’inceneritore prima e dall’impianto di depurazione poi. La puzza, come un fantasma, resta stantia nell’aria e si trascina nelle case di chi vive nella zona di Sant’Antonello e nelle contrade limitrofe. «È tutta colpa di questo demonio che sta qui», confabulano due anziane che il caldo estivo possono goderselo solo lontano da casa. «Non ce la facciamo più e non ne possiamo più dei cattivi odori – continuano –. Non possiamo stare fuori e viviamo la nostra vita barricati in casa. Siamo qui per chiedere aiuto e siamo consapevoli che non si può chiudere un depuratore da un giorno all’altro, ma adesso abbiamo bisogno di risposte». LA COSTRUZIONE DELLE VASCHE Non c’è solo la puzza. L’impianto di depurazione dovrà essere allargato. E questa ipotesi atterrisce i residenti. «Abbiamo una serie di documenti che abbiamo inviato alle autorità competenti – spiegano i membri dell’associazione Crocevia – che dimostrano come il depuratore consortile non rispetti le distanze minime previste dalla legge rispetto al fiume Crati ma addirittura sembra che le autorizzazioni sono state rilasciate su progetti diversi rispetto a quelli realizzati. L’impianto è stato costruito su un’area inquinata e che dovrebbe essere bonificata per cui se ci sono soldi da spendere per il raddoppio delle vasche forse sarebbe il caso di investirli in altro». I soldi, manco a dirlo, ci sono così come la possibilità che iniziati i lavori di scavo su quell’area mai bonificata fuoriescano i rifiuti interrati da diverso tempo. Il cancello verde separa l’impianto di depurazione dai residenti, come una rete separa due giocatori di tennis. L’ultimo servizio lo sferrano ancora i rendesi. «Non c’è nessuno dei sindaci del Consorzio, è la solita vergogna». LA GECO SCRIVE A OCCHIUTO Ma l’agitazione non è solo fuori. La GeCo (società che si occupa dell’impianto) scrive ai sindaci del Consorzio per annunciare lo stato di agitazione sindacale per il mancato pagamento del mese di giugno e della 14esima mensilità prevista dal contratto. «Si sta provando comunque a gestire l’impianto – è scritto nella missiva – nel rispetto degli impianti tabellari previsti dalla legge incorrendo tuttavia in difficoltà economico finanziarie determinate in via principale dal comune di Cosenza, capofila del consorzio stesso». La società nella lettera lamenta le risposte evasive dell’amministrazione comunale, rea di non emettere le dovute delibere dal 2017 e i pagamenti dal 2015, nel voler dare risposte certe in merito alla liquidazione della spesa e scrive: «Neanche l’annuncio di sanzioni da parte della Comunità europea è stato utile a modificare il comportamento inadempiente del comune di Cosenza». La GeCo lamenta che i soldi del comune di Cosenza non arrivano dal 2015, il debito accumulato sarebbe di 220mila euro ed è per questo che la società annuncia ai sindaci che non potendo più sopportare il debito del comune capofila si vede costretta a non pagare i dipendenti e a non poter più garantire determinati standard. CLOACA MAXIMA La Procura di Cosenza non ha ancora chiuso le indagini a carico delle persone coinvolte nell’indagine sulla gestione dell’impianto di depurazione (leggi qui la notizia). Attualmente l’amministratore giudiziario opera nel regime disposto dalla legge, ma i cittadini continuano a lamentare il disagio allo stesso modo. Nelle indagini condotte dalla procura guidata da Mario Spagnuolo e dall’aggiunto Marisa Manzini si scoprì in che modo i soggetti coinvolti amministrassero l’impianto. Con sversamenti che più che depurare inquinavano, come nel caso “«Sta stramazzannu» e il liquame finisce nel Crati”.

Michele Presta m.presta@corrierecal.it

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