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«La morte in vacanza sul lungomare Laqualunque»

di Laboratorio territoriale*

Pubblicato il: 06/05/2019 – 11:46
«La morte in vacanza sul lungomare Laqualunque»

Alla chiusura del secondo conflitto mondiale la società italiana, ormai presa d’entusiasmo per gli sforzi bellici, fece seguire l’apertura della guerra nazionale contro l’agricoltura di sussistenza, definita “dell’osso” da Manlio Rossi Doria che preferiva quella della polpa. Ricordiamo qui, tra le più note estrinsecazioni dello spirto guerrier che ruggiva smanioso di preparare il decollo del triangolo industriale, gli eccidi di contadini per mano della polizia di Scelba, ministro dell’interno rozzo e feroce a cui forse si ispira il prode Salvini. Intanto De Gasperi, firmatario per conto del governo di unità nazionale nel giugno 1946 del protocollo d’intesa col Belgio poi chiamato “accordo uomo-carbone” (e infatti le due nazioni pattuivano uno scambio: l’Italia avrebbe potuto acquistare 2500 tonnellate di carbone per ogni migliaio di disgraziati strappati ai paesi e alle campagne e spediti sul fronte belga del bestiale lavoro estrattivo), s’impegnava in prima persona nella pesca del minatore che durò fino alla tragedia di Marcinelle del 1956: hanno lasciato il segno le sue tournée in Calabria nel corso delle quali cantava sempre la stessa canzone intitolata “Imparate una lingua e andate a lavorare all’estero”. La strategia tesa a creare l’esercito industriale di riserva si avvalse anche di una riforma agraria congegnata come presa dei contadini per i fondelli, della scuola, dei mezzi cosiddetti d’informazione e di ogni strumento utile a creare nel villico la sensazione d’essere inferiore e inadeguato nel contesto della modernità trionfante. L’operazione riuscì pienamente, come ebbe modo di osservare l’addolorato Pasolini. Noi disponiamo delle registrazioni di tante storie di vita di uomini e donne calabresi d’estrazione rurale nati nei primi tre decenni del secolo scorso; i riferimenti alle difficoltà affrontate nei propri percorsi biografici dagli autori di queste testimonianze (manodopera familiare obbligatoria alla patria santa intenta a guerreggiare, impossibilità di accedere in maniera soddisfacente alla proprietà o all’uso della terra) permettono di puntare l’indice contro le scelte criminali dei ceti dominanti ai tempi della loro gioventù. Quelli che in sella sono montati dopo, e tuttora cavalcano nelle praterie del produttivismo piene di spazzatura e scorie industriali, gongolano quando il faticoso passato rurale viene lapidato da luoghi comuni come Non si può tornare indietro, Meno male che oggi non si fa più quella vita e ci siamo civilizzati. La colpa della durezza di tante esistenze si attribuisce così al buio e rozzo medioevo agro-pastorale, per grazia del cielo superato dalle magnifiche sorti e progressive della società dei consumi, mentre le ingiustizie sociali e la rapacità di certi individui vengono scagionate. Al contempo il pensiero sempre presente delle tristezze ormai alle spalle ci consola e ci dà la forza di sopportare gerarchia, disciplina, lavori noiosi e idioti in tante ore di carcere quotidiano,  l’esuberanza di merci dall’obsolescenza pianificata che contendono lo spazio a uomini animali e vegetali, l’avanzata del cemento e delle grandi opere, il deterioramento dei rapporti sociali, la puzza, il rumore delle città e delle informi metastasi urbanistiche sempre più ampie che le circondano, i cibi fetenti con gli additivi, i conservanti, gli ormoni, gli estrogeni e i pesticidi, le falde acquifere inquinate, il trionfo del cancro e delle case farmaceutiche e altre amenità che omettiamo sennò l’attuale governo del cambiamento ci applica una tassa sul disfattismo.
Comunque questo parziale elenco dei disastri in cui siamo immersi basta a far capire che, debellata la presenza umana nelle campagne e nelle aree interne, la guerra permanente si dedicò in seguito più intensamente alla devastazione dei territori. Noi calabresi ci siamo fatti beffe del monito che Giuseppe Isnardi ci rivolgeva nel lontano 1962, quando le linee della condotta bellica apparivano già definite: Sul turismo si appuntano molte speranze di un decisivo rifiorimento economico della Calabria. Bisognerà tuttavia tenere presente il pericolo che ne possa venire una diminuzione o alterazione dei tratti ed aspetti più caratteristici della sua fisionomia di paesaggio, alterazione purtroppo qua e là già in atto, sì che, in alcuni casi, soprattutto nelle plaghe costiere, si può già parlare addirittura di distruzione. Il fascino di una Calabria “modernizzata”, sì, ma senza rispetto al suo passato ed a ciò che la rese oggetto di tanta ammirazione  e di così nobili studi da parte di spiriti eletti, italiani e più ancora stranieri, potrebbe durare ben poco e risolversi in danno più che in vantaggio serio e durevole.
Ai nostri giorni la maggior parte dei luoghi della Calabria è consacrata alla circolazione automobilistica e all’artificializzazione cementizia che li banalizza privandoli dell’anima e del corpo: infatti le fotografie pubblicitarie delle agenzie turistiche o del Consiglio regionale diffuse con l’intento di tendere trappole agli ignari vacanzieri faticano a trovare qualche metro quadrato privo di particolari aberranti che potrebbero far sorgere copiosi dubbi sulle attrattive del “paradiso nel Mediterraneo”.
Ovviamente lo sviluppo e il progresso promessi dai guerrafondai sono solo parole grottesche in una realtà in cui il tempo storico delle generazioni più giovani è stato bruciato dalle operazioni belliche contro la natura. Nell’epoca dell’emergenza ambientale planetaria un territorio può  dirsi sviluppato se dispone di biodiversità, di terreni fertili e sani, di alberi, di suoli liberi dal cemento, acque pulite, semi antichi selezionati nei secoli dai contadini, pascoli abbondanti, paesaggi armonici che si evolvono dialogando con la fisionomia impressa dalle generazioni precedenti, se diventano un valore giustizia sociale e solidarietà. La Calabria dunque è attualmente sottosviluppata, e sarebbe invece in condizioni assai migliori se potesse per miracolo ritornare agli anni cinquanta del Novecento. Ma la fine delle ostilità nei confronti del territorio, la conquista  di una nuova era di pace tra le popolazioni e i loro ambienti d’insediamento, potrà scaturire solo dal superamento della cultura della morte che pervade mentalità e sentimenti di una società malata, investita da psicopatie collettive la cui proliferazione è purtroppo sotto i nostri occhi, in qualsiasi punto scelgano di posarsi. Per esempio il lungomare autostradale, l’ettaro di cemento impermeabile ipertrofico autolesionista in programma a San Lorenzo (Reggio Calabria) di cui ci siamo occupati in alcuni precedenti interventi, è sì un affare da un milione e duecentomila euro destinati a coloro i quali, contro il parere della Soprintendenza che evidenzia la violazione di alcune norme a tutela del paesaggio, hanno intenzione di partecipare al banchetto ottenendo fette più o meno grandi della torta, ma prima di tutto è una dimostrazione della necrofilia di chi lo ha partorito, la manifestazione di un gusto e di un senso del decoro in cui l’ordine e la pulizia coincidono appunto con la morte. I politici dell’asfalto facile, come il tragico e geniale Cetto Laqualunque, ostentano il profilo psicologico delineato da Erich Fromm nella seguente classica pagina: Mentre la vita è caratterizzata dalla crescita strutturata, funzionale, la persona necrofila ama tutto ciò che non cresce, tutto ciò che è meccanico. La persona necrofila è spinta dal desiderio di trasformare l’organico nell’inorganico, di accostarsi alla vita meccanicamente, come se tutte le persone viventi fossero cose. Tutti i processi viventi, i sentimenti e i pensieri vengono trasformati in cose.
Un ceto di affaristi noto come “partito del cemento”, è vero, ha occupato lo stato grazie alla squisita disponibilità degli uomini politici e gestisce l’erario come una cassa privata. Per questo, è pure verissimo, i colleghi di Cetto Laqualunque cianciano sempre della necessità di infrastrutture ulteriori e si consumano in Italia tre metri quadrati di suolo al secondo. È vero inoltre che le colate di cemento sono diventate un perno dello smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi, ma la brama di guadagno monetario degli affaristi da sola non spiega la furia distruttiva di cui stiamo parlando. Noi abbiamo chiamato “Ismia ià tí zoì (Insieme per la vita)” la prima assemblea del 2014 da cui poi è nato il nostro Laboratorio territoriale perché sapevamo fin da allora di dover affrontare un processo di impazzimento e d’alienazione, trionfante nelle relazioni degli uomini tra loro come nei rapporti tra uomini e territorio. Franco Berardi detto Bifo giustamente, nell’aureo libretto “Come si cura il nazi”, parlava di brutalità e aggressività caratteristiche di un disturbo dell’affettività, di una paralisi del desiderio, di una vera e propria contrazione della capacità di estroversione e di contatto. E poi ancora di malattia psicotica, di sofferenza, frustrazione, automutilazione, che poco alla volta si estroflette, si rovescia verso l’esterno, trasformandosi in aggressività e violenza. E ci invitava a non soggettivizzare il male: Cetto Laqualunque, politico calabrese paradigmatico, e i suoi emuli con cui abbiamo a che fare tutti i giorni, sono sì personaggi inquietanti ma non basta contrastarli per risolvere i problemi. Per poter curare la malattia occorre sapere – scriveva Bifo – che essa non è solo  là fuori, nel nemico, nel cattivo… ma che noi stessi ce la portiamo dentro. Il fatto è che il sistema capitalistico è essenzialmente l’espansione illimitata di un modello antropologico e produttivo al quale non solo la borghesia ma tutte le classi sociali partecipano, e dal quale tutti i comportamenti, le attese, le motivazioni, i desideri sono permeati. Se non siamo in grado di comprendere quel modello antropologico, se non siamo in grado di dissolverlo, prima di tutto in noi stessi, e poi di agire sugli altri con la forza dell’esempio e della cura, nulla si modificherà se non in peggio.
Coraggio allora amici lettori, il vicolo cieco della storia in cui ci siamo cacciati richiede una marcia indietro se vogliamo sperare di andare avanti; sono tempi di sobrietà, autoproduzione del cibo, cura delle relazioni interpersonali e con l’ambiente, redistribuzione delle risorse; tempi in cui un metro di suolo libero dal cemento o un albero valgono tanto mentre un milione di euro non vale niente. Sono invece anacronistici la crescita economica, l’ipertrofia delle infrastrutture, il fascismo e il razzismo, il consumo di suolo, l’agricoltura industriale energivora e inquinante. Dobbiamo cambiare personalmente immaginario e stile di vita, liberarci da alcune ossessioni che ci dominano, altrimenti l’atroce lungomare Laqualunque mai ci apparirà un’idea scandalosa e un tragico pericolo per un angolo del mondo.
*Laboratorio territoriale Condofuri San Lorenzo

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