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Il procuratore di Lamezia: «Siate cittadini e non sudditi»
La rivolta delle coscienze, la lotta all’ignoranza e alla mentalità della prevaricazione, il ricordo del processo per la morte del piccolo Dodò. Intervista a Salvatore Curcio: «Non si può essere maes…
Pubblicato il: 23/06/2019 – 15:50
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di Alessia Truzzolillo
LAMEZIA TERME «La comunità calabrese deve essere chiamata, con forza, a “riappropriarsi” dello status di cittadini, dismettendo i panni dei sudditi che per troppo tempo abbiamo indossato, rifuggendo da quell’atteggiamento ammorbante di incomprensibile “terzietà” nei confronti dello Stato, dimenticando, spesso, che lo Stato siamo noi, che non ci può essere comunità senza senso di appartenenza, senza il rispetto delle più semplici regole della convivenza civile».
I tempi che stiamo vivendo, soprattutto in Calabria, richiedono una riflessione. Quella che il procuratore capo di Lamezia Terme Salvatore Curcio offre al Corriere della Calabria, è una riflessione accorata, da magistrato che per la sua terra ha speso e sta spendendo senza risparmio anni e risorse.
Dopo il suo intervento all’inaugurazione del festival Trame (ne abbiamo parlato qui) gli abbiamo chiesto di approfondire i temi trattati. Dalla sua esperienza di pm antimafia, di sostituto procuratore generale alla corte d’Appello di Catanzaro e, oggi, di procuratore capo in una città ostinata e difficile come Lamezia Terme, Salvatore Curcio fa un’analisi amara e lucida di quella che è la condizione che la società calabrese sta vivendo. Una condizione che il magistrato definisce inficiata di notevoli «paradossi».
«È il convincimento di essere sudditi e di non essere cittadini – afferma il procuratore – che rappresenta il vero problema di questa terra, martoriata non solo dalla ‘ndrangheta e dai fatti di ‘ndrangheta, ma anche da tanti maestri parolai, trascurando che non si può essere maestri se non si è stati testimoni del proprio impegno civile».
Come si manifesta, allora, il vero impegno civile?
«Innanzitutto rifiutando il diffuso atteggiamento che porta a ritenere che la lotta alla ‘ndrangheta sia un affare, una problematica da demandare esclusivamente alle forze di polizia, alla magistratura e agli altri organismi istituzionali, centrali e locali. Questo è il regalo più grande che abbiamo fatto alle organizzazioni di ‘ndrangheta. Perché la ‘ndrangheta, l’illegalità si sono nutrite – e si nutrono – soprattutto dei nostri silenzi, delle nostre indifferenze del nostro disimpegno, delle nostre equivocità».
Da dove può partire il cambiamento?
«Innanzitutto dalla scelta che ciascun calabrese è chiamato a fare con chiarezza e senza infingimenti: scegliere bene da che parte stare, rifuggendo dalle scorciatoie, dai compromessi: sporcandosi tutti insieme le mani in questa battaglia che sembra non avere fine. Non basta aderire a un movimento, a una associazione, o manifestare per essere realmente e profondamente contro, per essere antimafia. Il cambiamento deve partire da una rivolta delle coscienze: l’antimafia nasce dalla nostra interiorità e da un’effettiva rinascita di libertà interiore. Non a caso Corrado Alvaro scriveva; “Nessuna libertà esiste quando non esiste una libertà interiore dell’individuo”».
Da cosa partire per rivoluzionare le nostre coscienze?
«La cultura e la formazione dei nostri giovani rappresentano un elemento essenziale del cambiamento. Nella mia attività professionale mi è capitato di occuparmi dinanzi alla Corte d’assise prima e alla Corte d’assise d’appello di Catanzaro poi, della cosiddetta “strage dei campetti” in cui rimase tragicamente ucciso il piccolo Domenico Gabriele di soli nove anni. Ci fu un momento del processo che mi impressionò particolarmente, quando la difesa degli imputati chiamò a deporre – quali testi a discarico – una serie di ragazzi tra i 16 e i 20 anni. Questi ragazzi avevano difficoltà a leggere la formula di impegno di poche righe che veniva loro sottoposta. Ecco, lì ho veramente toccato con mano di come e quanto la ‘ndrangheta possa proliferare in contesti caratterizzati da disagio sociale e ignoranza».
La scuola ha un ruolo importante.
«L’intero sistema educativo non può e non deve prescindere da un’inscindibile sinergia scuola-famiglia. Soprattutto in un’epoca in cui il modello educativo familiare imperante è, ahimè, il modello di famiglia delegante. L’educazione e la formazione dei nostri figli è, di fatto, demandata ai nonni, alla tv, e oggi più che mai, ai social e al web. Non abbiamo tempo da dedicare ai nostri ragazzi, a coloro che rappresentano il nostro domani, le nostre speranze. Spesso si creano situazioni paradossali in cui le famiglie si pongono in aperta discordanza con le agenzie educative, prima tra tutte la Scuola, perché magari riesce più facile, o meglio più comodo, dare retta alle doglianze di un figlio che alle critiche costruttive di un professore o di un preside che lamenta uno scarso impegno scolastico piuttosto che atteggiamenti censurabili: meglio apparire genitore di un genio incompreso che di un inguaribile ciuchino. Si mina, in tal modo, l’intero sistema educativo che non può e non deve prescindere da un’inscindibile sinergia Scuola-Famiglia. La cultura, difatti, e la formazione dei nostri giovani rappresentano un elemento essenziale del cambiamento».
Cosa alimenta la ‘ndrangheta oltre all’ignoranza e al disimpegno?
«La cultura mafiosa, la mentalità della prevaricazione, della difesa ad oltranza delle proprie “rendite di posizione”, della “mediazione amicale” quale soluzione agli ostacoli che ci sbarrano il passo, anche quando si è consapevoli che realizzare una nostra aspettativa potrebbe significare il sacrificio dell’interesse comune o, peggio ancora, violare le regole di convivenza. Tutto ciò che accade nella nostra comunità è un problema che ci riguarda, che siamo chiamati ad affrontare, ciascuno nel suo piccolo, ma con la partecipazione attiva al vivere comune, col proprio impegno, con la propria testimonianza al vivere civile, fatta di amore per la verità, la giustizia, la libertà». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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