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«Dobbiamo far male». Il lametino che terrorizzava Viterbo
Nel rapporto “Mafie nel Lazio” la storia del “piccolo” clan italo-albanese governato da Giuseppe Trovato. I rapporti con i Giampà. Il tentativo di importare il “metodo criminale”: le indagini documen…
Pubblicato il: 16/07/2019 – 9:31
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di Pablo Petrasso
LAMEZIA TERME Il 15 febbraio 2019 Viterbo scende in piazza per una fiaccolata antimafia. Impensabile, fino a qualche anno fa. E invece la città ne sente il bisogno. Si è svegliata, qualche giorno prima, scoprendo di essere terra di conquista per un clan piccolo ma feroce, “governato” da Giovanni Trovato, calabrese arrivato nel Lazio una quindicina di anni fa. Sfilano i sindacati, aderiscono associazioni di categoria e associazioni studentesche. È una delle prime manifestazioni contro le mafie in una provincia considerata “isola felice” sino a pochi anni fa.
PAURA A VITERBO “Mafie nel Lazio” segnala questa escalation, un nuovo livello di pericolosità per la presenza mafiosa in provincia di Viterbo. Nei precedenti rapporti si parlava di «presenze di esponenti della ‘ndrangheta e pregiudicati sardi particolarmente feroci». Ma le indagini della Dda di Roma, tra il 2017 e il 2018, hanno «hanno disvelato l’esistenza di una nuova e agguerrita associazione di stampo mafioso autoctona». L’inchiesta condotta dai pm Giovanni Musarò e Fabrizio Tucci ha ricostruito nel dettaglio «il contesto mafioso di questo clan». Assieme a una serie «impressionante di episodi violenti che hanno fatto vivere i cittadini di Viterbo in un costante clima di terrore per anni». Trenta incendi ad autovetture di proprietà di commercianti e appartenenti alle forze dell’ordine; sei tentativi di incendio ad autovetture di proprietà di commercianti e appartenenti alle forze dell’ordine; due danneggiamenti ad autovetture di proprietà di commercianti; un furto, una tentata rapina e un danneggiamento a esercizi commerciali; undici casi di intimidazione e una minaccia estorsiva a commercianti; un’aggressione; un pestaggio a danno di un commerciante ed un pregiudicato. Per il gip «si tratta episodi maturati in un medesimo contesto ambientale nel quale le vittime sono, per lo più, imprenditori esercenti attività di compro oro, ovvero professionisti – avvocati e commercialisti – legati ai primi da rapporti personali o professionali o, ancora, soggetti in rapporti commerciali o lavorativi con gli imprenditori del settore […] episodi avvinti in una più ampia ed unitaria strategia criminale». Il promotore sarebbe Giuseppe Trovato (il suo arresto, nella foto dal sito del Messaggero), «calabrese trapiantato nel viterbese da quasi quindici anni», il cui scopo sarebbe stato quello di «assumere e mantenere il controllo delle attività economiche di compro oro del Viterbese e, in ultima analisi, il controllo del territorio».
DA LAMEZIA A VITERBO Il profilo del presunto fondatore della “mafia viterbese” viene, ancora, tracciato dal giudice per le indagini preliminari. «[…] Trovato – scrive – appartiene a una famiglia di ‘ndrangheta originaria di Lamezia Terme e storicamente intranea al ben noto clan Giampà, con cui ha continuato a mantenere solidi rapporti anche nel corso degli ultimi anni, sovvenzionando la carcerazione di alcuni esponenti della cosca e favorendo la latitanza di altri, anche sul territorio laziale».
IL CLAN ITALO-ALBANESE Trovato – secondo gli inquirenti – «dà vita un’associazione mafiosa autoctona italo-albanese, che si avvale della “ferocia” del peso “militare” degli albanesi». La fama criminale di Trovato «e il timore che incute nella popolazione viterbese emergono anche dalle deposizioni di alcune persone offese, che hanno fatto inequivoco riferimento al fatto che a Viterbo vi è la convinzione che Trovato Giuseppe sia soggetto appartenente alla ‘ndrangheta, convinzione avvalorata dalla condotta ostentatamente intimidatoria adottata dall’indagato». Il calabrese trapiantato a Viterbo avrebbe anche tentato di trasmettere il metodo mafioso ai proprio complici. «Ripetutamente – scrive il gip – sono state intercettate conversazioni da cui è emerso che Trovato ha cercato di trasmettere ai sodali le modalità operative tipiche di alcune cosche di ‘ndrangheta, in primis quella di far pervenire un messaggio mafioso mediante il posizionamento di teste mozzate di animali davanti all’autovettura, ovvero dinanzi all’attività commerciale della vittima di turno. Le vittime degli attentati dell’associazione rifiutano di collaborare con le forze dell’ordine, paura ed omertà la “fanno da padrone”».
«DOBBIAMO TERRORIZZARE TUTTI» Violenze e intimidazioni disegnano uno scenario già visto: «In alcuni casi le persone offese – hanno spiegato gli investigatori – convocate per essere sentite a sommarie informazioni, hanno preferito assumere atteggiamenti reticenti e nei casi in cui, sollecitati dalle forze di polizia hanno dovuto fornire informazioni, subito dopo la convocazione, in preda ad un vero e proprio terrore, hanno cercato di mettersi in contatto con Trovato per ridimensionare la portata di quanto accaduto e per scongiurare ritorsioni fisiche ai loro danni». Non è difficile crederlo rileggendo una delle frasi pronunciate da Trovato in una delle intercettazioni contenute nei brogliacci dell’inchiesta: «Perché noi dobbiamo terrorizzare tutti… hai capito? Noi dobbiamo far male», dice alla compagna. Quella di Trovato è una delle cosiddette “piccole mafie”. Ma gettato nel terrore la provincia di Viterbo per mesi. Provando che non è più un’isola felice. Perché di isole felici non ce ne sono più. (p.petrasso@corrierecal.it)
PAURA A VITERBO “Mafie nel Lazio” segnala questa escalation, un nuovo livello di pericolosità per la presenza mafiosa in provincia di Viterbo. Nei precedenti rapporti si parlava di «presenze di esponenti della ‘ndrangheta e pregiudicati sardi particolarmente feroci». Ma le indagini della Dda di Roma, tra il 2017 e il 2018, hanno «hanno disvelato l’esistenza di una nuova e agguerrita associazione di stampo mafioso autoctona». L’inchiesta condotta dai pm Giovanni Musarò e Fabrizio Tucci ha ricostruito nel dettaglio «il contesto mafioso di questo clan». Assieme a una serie «impressionante di episodi violenti che hanno fatto vivere i cittadini di Viterbo in un costante clima di terrore per anni». Trenta incendi ad autovetture di proprietà di commercianti e appartenenti alle forze dell’ordine; sei tentativi di incendio ad autovetture di proprietà di commercianti e appartenenti alle forze dell’ordine; due danneggiamenti ad autovetture di proprietà di commercianti; un furto, una tentata rapina e un danneggiamento a esercizi commerciali; undici casi di intimidazione e una minaccia estorsiva a commercianti; un’aggressione; un pestaggio a danno di un commerciante ed un pregiudicato. Per il gip «si tratta episodi maturati in un medesimo contesto ambientale nel quale le vittime sono, per lo più, imprenditori esercenti attività di compro oro, ovvero professionisti – avvocati e commercialisti – legati ai primi da rapporti personali o professionali o, ancora, soggetti in rapporti commerciali o lavorativi con gli imprenditori del settore […] episodi avvinti in una più ampia ed unitaria strategia criminale». Il promotore sarebbe Giuseppe Trovato (il suo arresto, nella foto dal sito del Messaggero), «calabrese trapiantato nel viterbese da quasi quindici anni», il cui scopo sarebbe stato quello di «assumere e mantenere il controllo delle attività economiche di compro oro del Viterbese e, in ultima analisi, il controllo del territorio».
DA LAMEZIA A VITERBO Il profilo del presunto fondatore della “mafia viterbese” viene, ancora, tracciato dal giudice per le indagini preliminari. «[…] Trovato – scrive – appartiene a una famiglia di ‘ndrangheta originaria di Lamezia Terme e storicamente intranea al ben noto clan Giampà, con cui ha continuato a mantenere solidi rapporti anche nel corso degli ultimi anni, sovvenzionando la carcerazione di alcuni esponenti della cosca e favorendo la latitanza di altri, anche sul territorio laziale».
IL CLAN ITALO-ALBANESE Trovato – secondo gli inquirenti – «dà vita un’associazione mafiosa autoctona italo-albanese, che si avvale della “ferocia” del peso “militare” degli albanesi». La fama criminale di Trovato «e il timore che incute nella popolazione viterbese emergono anche dalle deposizioni di alcune persone offese, che hanno fatto inequivoco riferimento al fatto che a Viterbo vi è la convinzione che Trovato Giuseppe sia soggetto appartenente alla ‘ndrangheta, convinzione avvalorata dalla condotta ostentatamente intimidatoria adottata dall’indagato». Il calabrese trapiantato a Viterbo avrebbe anche tentato di trasmettere il metodo mafioso ai proprio complici. «Ripetutamente – scrive il gip – sono state intercettate conversazioni da cui è emerso che Trovato ha cercato di trasmettere ai sodali le modalità operative tipiche di alcune cosche di ‘ndrangheta, in primis quella di far pervenire un messaggio mafioso mediante il posizionamento di teste mozzate di animali davanti all’autovettura, ovvero dinanzi all’attività commerciale della vittima di turno. Le vittime degli attentati dell’associazione rifiutano di collaborare con le forze dell’ordine, paura ed omertà la “fanno da padrone”».
«DOBBIAMO TERRORIZZARE TUTTI» Violenze e intimidazioni disegnano uno scenario già visto: «In alcuni casi le persone offese – hanno spiegato gli investigatori – convocate per essere sentite a sommarie informazioni, hanno preferito assumere atteggiamenti reticenti e nei casi in cui, sollecitati dalle forze di polizia hanno dovuto fornire informazioni, subito dopo la convocazione, in preda ad un vero e proprio terrore, hanno cercato di mettersi in contatto con Trovato per ridimensionare la portata di quanto accaduto e per scongiurare ritorsioni fisiche ai loro danni». Non è difficile crederlo rileggendo una delle frasi pronunciate da Trovato in una delle intercettazioni contenute nei brogliacci dell’inchiesta: «Perché noi dobbiamo terrorizzare tutti… hai capito? Noi dobbiamo far male», dice alla compagna. Quella di Trovato è una delle cosiddette “piccole mafie”. Ma gettato nel terrore la provincia di Viterbo per mesi. Provando che non è più un’isola felice. Perché di isole felici non ce ne sono più. (p.petrasso@corrierecal.it) Argomenti
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